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IL PRIMO IMPERATORE E LE SUE GRANDI OPERE
A
causa della grande siccità che durante l’inverno aveva colpito
la provincia
dello Shanxii e
tutto il nord della Cina, nel Marzo del 1974 i contadini dei villaggi
intorno al Monte Li si misero a cercare l’acqua scavando
pozzi nella campagna.
I
contadini erano soliti trovare cocci di terracotta che raccoglievano
e riutilizzavano. Ma un giorno i cocci che vennero alla luce
erano molto diversi da quelli che i contadini erano soliti trovare:
avevano delle sembianze quasi umane.
I
contadini li raccolsero e li portarono al villaggio. Gli anziani
erano molto superstiziosi e pensarono che l’aver portato via
quei cocci dal terreno potesse in qualche modo fare infuriare gli
spiriti: per giorni gli abitanti del villaggio ritornarono sul luogo
del ritrovamento a pregare ed accendere incensi per placare l’ira
degli dei. Tra essi però vi era un contadino che, come spesso
accade, vide “un pochino più in là degli altri”. Yang
Zhifa,
questo il suo nome secondo antichi libri, decise di avvertire le
autorità cinesi del ritrovamento. Sul posto venne mandata un’equipe
di esperti: dopo più di 2000 anni l’esercito di terracotta
rivedeva finalmente la luce. Da allora gli scavi proseguirono
lentamente e con molta prudenza: ad oggi sono state riportate alla
luce circa 6000 statue che sono diventate velocemente la seconda
più famosa attrazione del Regno di Mezzo dopo la Grande Muraglia
Cinese. Si racconta che i contadini non ricevettero mai un compenso
per la scoperta. Tutti tranne l’astuto Yang Zhifa che ottenne un
premio equivalente al suo stipendio di un anno e da allora la sua
vita si fece agiata.
Da
questo ritrovamento esplose la curiosità, anche al di fuori della
Cina, per chi aveva voluto e concepito tutto ciò e cioè:
Qin Shi Huang
La sua sepoltura rimane tutt’oggi sotto un tumulo di terra alto 50 metri e il contenuto del suo mausoleo resta ancora un mistero. Le antiche scritture dello storico Sima Qian narrano che la costruzione dell’immenso palazzo e dell’esercito che lo difende furono realizzati con il lavoro coatto di più di 700.000 uomini e la realizzazione richiese più di 40 anni. Qin Shi Huang era un leggendario e controverso sovrano. L’uomo che, durante il 3° secolo A.C, seppe unificare sotto il suo regno un immenso territorio creando di fatto la Cina. Ma non si limitò a far costruire la sua tomba mausoleo. Avviò diversi grandi progetti di costruzione, tra cui: un sistema di trasporti esteso oltre 4.000 miglia che comprendeva città, strade, vie d’acqua e canali. Diede inizio anche all’immenso progetto di costruzione della Grande Muraglia, per difendere la Cina dalle invasioni dei popoli nomadi del Nord. La Grande Muraglia è oggi ritenuta una delle più grandiose costruzioni militari della storia.
Verso
la fine del suo regno, fece salpare diverse navi, alla ricerca
dell’elisir dell’immortalità per garantirsi vita eterna. Il
regno di Qin divenne, per quell’epoca, il più esteso al mondo; si
dice che il termine Cina derivi
daQin,
che si pronuncia Cin.
Quanto ha fatto Qin Shi Huang, ha meritato il plauso e l’approvazione
degli storici cinesi.
Tuttavia,
Qin Shi Huang fu anche un noto tiranno che imponendo leggi severe,
rese dura e miserabile la vita della gente, per cui Qin
Shi Huang divenne
sinonimo di atrocità. Impose ai sudditi tasse pesanti e lavoro
obbligatorio. All’epoca della dinastia Qin c’erano circa 10
milioni di abitanti nel Paese e 2 milioni vennero chiamati a lavorare
ai suoi progetti di costruzione. Estese le dure punizioni inflitte
per legge ai carcerati anche ai loro parenti, per via delle
cosiddette ’responsabilità collettive’”. Inoltre, il suo
regime cercò di controllare il popolo e di sopprimere la libertà di
pensiero. Ordinò che i preziosi testi classici fossero dati alle
fiamme e che migliaia di studiosi venissero uccisi, quando riteneva
che le sue politiche fossero messe in discussione e criticate.
«Io
ho apportato l'ordine alla folla degli esseri e sottomesso alla prova
gli atti e le realtà: ogni cosa ha il nome che le conviene. Io ho
distrutto nell'Impero i libri inutili. Io ho favorito le scienze
occulte, affinché si cercasse per me, nel paese, la droga
d'immortalità.»
Secondo
la leggenda, i suoi dottori avevano confezionato delle pillole che
avrebbero dovuto renderlo finalmente immortale ma ironicamente queste
contenevano mercurio e
lo avvelenarono.
Ad
oggi, gli archeologi cinesi non hanno ancora violato la tomba di Qin
Shi Huang.
Giace
lì indisturbato da più di 2000 anni nella sua tomba, mai esplorata.
Nella
Cina contemporanea, la
storiografia cominciò a rivalutare la figura del primo imperatore.
Lo definiva "uno dei grandi eroi della storia cinese". Fino
all'apoteosi, dell'affermazione attribuita a Mao Zedong «Egli
seppellì vivi 460 studiosi; noi ne abbiamo sepolti vivi
quarantaseimila... Voi [intellettuali] ci accusate di essere dei Qin
Shi Huang. Vi sbagliate. Noi abbiamo sorpassato Qin Shi Huang di
cento volte».
2
– CONFUCIO (K’ung
Fu Tsŭ - Confucius)
Confucio
rappresenta uno dei più vasti e durevoli fenomeni della coscienza
umana; è la viva incarnazione storica dei più profondi istinti di
tutta una razza. Poichè
quest’uomo il quale ha per tanti secoli improntato del suo pensiero
tutto il mondo estremo-orientale, cioè un terzo dell’umanità
vivente, ci appare prima di tutto come l’arbitro sublime che fra
due età discordi, tra il passato glorioso che si dissolve e l’oscuro
avvenire che si dischiude. Negli ultimi anni dei Chou, ove l’anarchia
finiva di liquidare una civiltà durata 1500 anni, Egli si alza solo,
sul disordine dei tempi, sul polverio della grande rovina e, mentre
la società, ormai in preda allo scompiglio, ci viene innanzi ricco
di passato, tetragono di fede, immacolato di cuore. Molto si è
discusso da qual parte i Cinesi siano immigrati, in età
lontanissima, nel territorio che anche oggi posseggono. prendendo
come punto di partenza la Birmania d’oggi, di ricostruire il
cammino per cui i Cinesi, risalendo dal Sud verso il Nord, sarebbero
arrivati, in tappe lente, ma con sicura penetrazione, fino nel cuore
della Cina odierna, ove di nomadi divenuti stazionari, adottando una
civiltà propria, si sarebbero sùbito distinti dai loro consanguinei
indo-cinesi. Avanti di raccogliersi in gruppi, i primi Cinesi
intessevano le loro dimore su gli alberi più robusti, scavavano a
mo’ di trogloditi, le loro abitazioni nelle pendici dei colli, come
anche oggi se ne vedono nello Shan Hsi, per sottrarsi alla minaccia
delle belve e delle alluvioni che spesso travagliavano quelle pianure
sterminate. Risalendo fino a quel loro stato lontanissimo, noi li
intuiamo vegetariani da prima, carnivori più tardi, e li vediamo
abbandonare progressivamente i disagi di un inutile vagare, per darsi
sempre più alla coltivazione del terreno e al mantenimento degli
animali domestici: siamo già fin d’allora in cospetto di un popolo
agricolo in cui la vita della famiglia si svolge e permane sopra una
base di schietta concezione comunista. Un carattere che rimarrà fra
i più peculiari della stirpe, cioè: l’attitudine alla
collaborazione reciproca. La supremazia di un capo sulla massa;
l’autorità paterna, sindacante l’andamento della famiglia, è di
già assai accentuata fin d’allora. La vita a base patriarcale, ma
tuttavia pervasa da un sano senso di collettivismo, sbocca di
necessità nel concetto del patriarcato sociale: ossia di una società
ormai costituita che per difendersi nella sua più alta forma
raggiunta, ha bisogno di un duce: allora come il Popolo lega quella
sua eredità al Predestinato, al Figlio del Cielo (T’ien Tsŭ),
l’Imperatore, a sua volta, perchè questo legato non gli sfugga,
investe, in ogni parte del territorio, persone capaci di aiutarlo ad
esercitare e a conservare il suo mandato divino. Le prime basi per un
regime feudale sono così tracciate.
Da
noi l’individuo è tutto: indaga, scopre e fonda; in Cina
l’individuo è subordinato all’insieme, in quanto che doveri ben
precisi gli incombono, prescritti da quel Tutto di cui egli deve
sentirsi una parte. Anche la religione non si svolse separata
dall’idea dello Stato. L’Imperatore è anche il Pontefice; i suoi
funzionari politici sono anche i suoi sacerdoti.
Questi
tre nomi Yao, Shun e Yu, che tutti i letterati cinesi hanno avuto
sempre in cuore, all’ultimo dei quali si ricollega, per via
ereditaria, la prima Dinastia storica dei Hsia (1989-1559),
impersonano l’età dell’oro della vecchia Cina. Yao, è il grande
osservatore dei fenomeni naturali; il redattore del calendario; il
demarcatore delle quattro stagioni. Tutto ciò per aiutare le
occupazioni agricole del popolo le quali devono svolgersi all’unisono
della volontà cosmica. Shun, è il grande canalizzatore della
terribile alluvione del 2297 a. C. Nel 2278 ha già asciutto il
territorio; il suo governo è già governo feudatario: divide
l’Impero in nove e poi in dodici province. Egli sale per forza di
virtù al potere supremo; il testo dice che era «wei chien chih
jen»: «uomo di bassa estrazione nei natali». Yü, aiuta a
canalizzare; apre le vie per i monti e per le foreste; stabilisce
l’esame trimestrale dei funzionari; il suo governo è perfetto. Le
loro gesta, sono descritte a sbalzi efficaci nello Shu Ching o Libro
degli Annali che Confucio, accanto allo Shi Ching, Libro dei Carmi;
al Yi Ching, Libro delle Trasformazioni; allo Ch’un Ch’iu,
Primavera e Autunno (Annali dello Stato di Lu) e al Li Chi, giunto
alla sua definitiva redazione più tardi, compilò, negli ultimi anni
della sua vita, per uso dei discepoli. Queste cinque opere son
chiamate dai Cinesi: «WU CHING» «I cinque libri canonici». Cioè
la base della loro cultura, multi millenaria.
Molte
dinastie, si susseguono, prima di Confucio. Ma sempre, la regola era
in alto l’Imperatore e i Principi, in basso il Popolo. l’Imperatore
e i Principi hanno il monopolio dell’intelligenza, il Popolo ha
quello dell’obbedienza: ogni individuo è considerato come un
piccolo dente che nella gran rota dell’organismo statale ha il suo
piccolo vano ove ingranare: l’obbligo è la molla prima di ogni
azione individuale. Ma errerebbe chi credesse che tra il basso e
l’alto non ci fosse armonia: il Popolo ha investito il
predestinato, il Predestinato veglia e regola, per i suoi attributi
semidivini, il buon andamento del Popolo: questi, dalla sua fatica
quotidiana, intuisce che la fatica dell’Imperatore, nel suo
atteggiamento immobile, supera, per complessità e profondità, la
sua. Nel suo concetto l’Imperatore è il vero intermediario tra il
Cielo e la Terra; perciò è anche Pontefice, e i suoi funzionari
come altrettante propaggini della sua duplice potenza. Il Figlio del
Cielo ha il suo culto che s’indirizza prima al Cielo e poi ai Geni
terrestri: il Popolo ha il culto dei Lari e degli Antenati. Così
l’idea religiosa si trova commista all’idea di Stato. Si
comprende subito dove si trovi il tallone di Achille per uno Stato
così fatto: se chi è a capo della federazione non è una forte
personalità, che tenga desto nei Principi feudatari il sentimento
della propria supremazia, i legami che tengono unito l’insieme si
andranno man mano allentando fino alla disgregazione. Così difatti
avvenne. Ai tempi di Confucio le cose erano già arrivate a tal punto
che più oltre non potevano andare: non solo il Principe si ribella
all’Imperatore, ma pure il servo al Principe.
Quando
nasce Confucio, il caos dell’anarchia ondeggia per tutto:
spettacolo imponente e miserando! Una grande civiltà durata 1500
anni stava naufragando lentamente per sempre. Confucio, così detto
perchè i primi gesuiti latinizzarono il nome cinese K’ung Fu Tsŭ
in Confucius, era il rampollo di una vecchia famiglia che vantava
origini regali, capaci di risalire fino alla seconda Dinastia Yin,
nato dal già settantenne K’ung Shu Liang Ho, sottoprefetto in
Tsou, nel reame di Lu (Shan Tung d’oggi) il ventiduesimo anno del
Duca Hsiang (551 a. C.) e da una giovinetta Cheng Tsai, della
famiglia Wen. Egli nacque con una protuberanza a sommo della testa,
perciò ebbe il nome di Ch’iu, «collicello». Una gravità
precoce, una inclinazione pronunciata per tutte le cose appartenenti
al rituale, lo distinguono fin da piccolo; il suo passatempo più
gradito era quello di giuocare con i piccoli vasi usati nelle
cerimonie per le offerte. A 19 anni sposa Ch’i Kuan Shi, dopo
essere stato per due anni all’ufficio di controllo sulla vendita
del grano: quattro anni più tardi eserciterà la stessa funzione sui
granai pubblici; poco dopo diviene ispettore generale col mandato di
esercitare anche la giustizia per le campagne. Nel 528 gli muore la
madre (il padre l’aveva già perso a tre anni) ed Egli si dà tutto
allo studio per riempire il periodo obbligatorio di tre anni di
ritiro dagli affari pubblici, imposto per legge, nel lutto. La sua
visita a Lo, nel Ho Nan d’oggi, è del 518: questo viaggio deve
essere stato di capitale importanza per il suo svolgimento interiore.
Con una specie di sacro tremore, insegue egli nelle desolate rovine
le tracce dell’antica magnificenza; non vi è motivo del passato,
con cui non si metta in intima comunione, non vi è frammento antico
che non faccia agire sul suo spirito con tutta la gravità della sua
muta e concisa eloquenza. Egli ritorna da questo viaggio, come Goethe
da Roma, rifatto e ritemprato per le opere immortali: sente ora per
la prima volta, lucidamente, che per rendersi padroni dell’avvenire,
bisogna sprofondarsi nel passato; sente di più, sente che solo dal
passato glorioso egli potrà spremere il farmaco efficace per la
salute delle generazioni presenti. La grandezza di Confucio, come
quella di altri sommi, s’inizia in una muta e grande concentrazione
interiore. Egli diverrà presto l’apostolo di questo suo ideale: è
di questa epoca, secondo la leggenda d’invenzione taoista, il suo
primo incontro con Lao Tsŭ 13. Ma già la fama della virtù del
Maestro era corsa e nel 501 a. C. Ting Kung, succeduto un anno prima
nel Reame di Lu, ormai in piena anarchia, al fratello Chao Kung,
morto in esilio, chiama Confucio e gli affida il governo della città
di Chung Tu. Ora gli è porta finalmente occasione di sperimentare,
se le sue teorie vanno d’accordo con la realtà: sembra di sì
perchè in breve tempo opera prodigi: le strade si mondano di ladri;
regolati sono i rapporti tra uomo e donna; mitigate le tasse; reso
più dignitoso il consorzio; addolcito il trattamento del popolo;
abolito il soverchio lusso dei funerali. Egli si fa notare in tal
modo che Ting Kung, lo crea Ministro dei Lavori pubblici e della
Giustizia. Egli ha ormai breve spazio per applicare la sua dottrina
che aspira ad arrivare allo Stato perfetto mediante il rinnovamento
etico dell’uomo; ciò che non è perfetto non dura. Per quanto la
Realpolitik sia, dopo tutto, il suo scopo, vede in questa meno che
una parvenza se non si appoggia sopra una solida base spirituale,
materiata d’amore e di giustizia.
Intanto
lo Stato di Lu, salito a tale floridezza di governo, per merito del
Nostro, aveva già destato l’invidia del vicino Reame di Ch’i, il
cui Principe dopo averle tentate di tutte, ricorre, per mettere la
confusione in Lu, ad un fine stratagemma15: manda alla corte di Ting
Kung un’ottantina delle sue più belle cortigiane e un centinaio
dei suoi più floridi cavalli. Donne e bestie, combinate insieme, non
mancano di produrre l’effetto desiderato. Confucio, già
cinquantaquattrenne, lascia, pieno di indignazione, la Corte con una
frase, che i discepoli, dopo, raccolsero in questi Dialoghi: «Ahimè!
Io non ho visto ancora uno che ami più la verità di un bel viso!».
Vengono
ora tredici anni di dure peregrinazioni, attraverso gli Stati Ts’ao,
Wei, Sung, Cheng, Ch’en e altri, in compagnia dei suoi discepoli;
comincia così la «via crucis» ovvero «via lucis» di Confucio.
Invano cerca un Principe di buona volontà che capisca la portata dei
suoi ammaestramenti, i quali si prefiggono di rinnovare il mondo,
risuscitando il passato; i più lo accolgono con freddezza17 e non
sanno che farsi di questo utopista errabondo, spinto, secondo loro,
da un’ansia risibile d’impiego, tale da farlo cadere malato se,
trascorsi tre mesi dalla carica toltagli, non ne trovi presto
un’altra. Muore nel 479 a. C. a 73 anni, stanco, deluso, disperato.
Le sue ultime parole furono: «La Fenice non arriva; il fiume non
gitta il disegno! è finita per me!».
Egli
ci appare in quel periodo di disordine, di anarchia, di
dissolvimento, come l’erede legittimo di una grande civiltà
defunta ch’egli medita ancora di imporre al suo popolo: il suo
«ritorno ideale» non è ripiegamento ma volontà conscia di
resurrezione. Questa magnifica attitudine, questo proposito
gigantesco che, per le circostanze avverse in cui si mostra, sembra
avere del titanico e del chimerico, è la base della grandezza
individuale di Confucio, il fulcro della sua gloria nei secoli. I
mezzi stessi ch’egli sceglie per realizzare il suo piano, appaiono
di una esiguità così voluta che ci sorprende.
Era
Egli nel giusto? I secoli par che abbiano dato ragione a Confucio:
dopo la sua parola, la Cina non è stata più colpita da disastri
paragonabili a quelli che la funestarono durante gli ultimi anni
degli Chou; sì che si potrebbe dire del Maestro come in fondo a
questi Dialoghi è detto di Wu Wang: «Esso ricondusse alla vita i
Reami defunti; ridette la posterità alle interrotte generazioni;
trasse alla luce i ritirati in solitudine e tutti i popoli
dell’Impero si volsero a lui con l’anima!».