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sabato 9 maggio 2020

IL TEMPO DEL DRAGONE

Estratto su un paio di situazioni che mettono in evidenza l'identità culturale del popolo Cinese:

1- IL PRIMO IMPERATORE E LE SUE GRANDI OPERE


A causa della grande siccità che durante l’inverno aveva colpito la provincia dello Shanxii e tutto il nord della Cina, nel Marzo del 1974 i contadini dei villaggi intorno al Monte Li si misero a cercare l’acqua scavando pozzi nella campagna. I contadini erano soliti trovare cocci di terracotta che raccoglievano e riutilizzavano. Ma un giorno i cocci che vennero alla luce erano molto diversi da quelli che i contadini erano soliti trovare: avevano delle sembianze quasi umane.
I contadini li raccolsero e li portarono al villaggio. Gli anziani erano molto superstiziosi e pensarono che l’aver portato via quei cocci dal terreno potesse in qualche modo fare infuriare gli spiriti: per giorni gli abitanti del villaggio ritornarono sul luogo del ritrovamento a pregare ed accendere incensi per placare l’ira degli dei. Tra essi però vi era un contadino che, come spesso accade, vide “un pochino più in là degli altri”. Yang Zhifa, questo il suo nome secondo antichi libri, decise di avvertire le autorità cinesi del ritrovamento. Sul posto venne mandata un’equipe di esperti: dopo più di 2000 anni l’esercito di terracotta rivedeva finalmente la luce. Da allora gli scavi proseguirono lentamente e con molta prudenza: ad oggi sono state riportate alla luce circa 6000 statue che sono diventate velocemente la seconda più famosa attrazione del Regno di Mezzo dopo la Grande Muraglia Cinese. Si racconta che i contadini non ricevettero mai un compenso per la scoperta. Tutti tranne l’astuto Yang Zhifa che ottenne un premio equivalente al suo stipendio di un anno e da allora la sua vita si fece agiata.
Da questo ritrovamento esplose la curiosità, anche al di fuori della Cina, per chi aveva voluto e concepito tutto ciò e cioè:

Qin Shi Huang

La sua sepoltura rimane tutt’oggi sotto un tumulo di terra alto 50 metri e il contenuto del suo mausoleo resta ancora un mistero. Le antiche scritture dello storico Sima Qian narrano che la costruzione dell’immenso palazzo e dell’esercito che lo difende furono realizzati con il lavoro coatto di più di 700.000 uomini e la realizzazione richiese più di 40 anni. Qin Shi Huang era un leggendario e controverso sovrano. L’uomo che, durante il 3° secolo A.C, seppe unificare sotto il suo regno un immenso territorio creando di fatto la Cina. Ma non si limitò a far costruire la sua tomba mausoleo. Avviò diversi grandi progetti di costruzione, tra cui: un sistema di trasporti esteso oltre 4.000 miglia che comprendeva città, strade, vie d’acqua e canali. Diede inizio anche all’immenso progetto di costruzione della Grande Muraglia, per difendere la Cina dalle invasioni dei popoli nomadi del Nord. La Grande Muraglia è oggi ritenuta una delle più grandiose costruzioni militari della storia.
Verso la fine del suo regno, fece salpare diverse navi, alla ricerca dell’elisir dell’immortalità per garantirsi vita eterna. Il regno di Qin divenne, per quell’epoca, il più esteso al mondo; si dice che il termine Cina derivi daQin, che si pronuncia Cin. Quanto ha fatto Qin Shi Huang, ha meritato il plauso e l’approvazione degli storici cinesi. Tuttavia, Qin Shi Huang fu anche un noto tiranno che imponendo leggi severe, rese dura e miserabile la vita della gente, per cui Qin Shi Huang divenne sinonimo di atrocità. Impose ai sudditi tasse pesanti e lavoro obbligatorio. All’epoca della dinastia Qin c’erano circa 10 milioni di abitanti nel Paese e 2 milioni vennero chiamati a lavorare ai suoi progetti di costruzione. Estese le dure punizioni inflitte per legge ai carcerati anche ai loro parenti, per via delle cosiddette ’responsabilità collettive’”. Inoltre, il suo regime cercò di controllare il popolo e di sopprimere la libertà di pensiero. Ordinò che i preziosi testi classici fossero dati alle fiamme e che migliaia di studiosi venissero uccisi, quando riteneva che le sue politiche fossero messe in discussione e criticate.
«Io ho apportato l'ordine alla folla degli esseri e sottomesso alla prova gli atti e le realtà: ogni cosa ha il nome che le conviene. Io ho distrutto nell'Impero i libri inutili. Io ho favorito le scienze occulte, affinché si cercasse per me, nel paese, la droga d'immortalità.»
Secondo la leggenda, i suoi dottori avevano confezionato delle pillole che avrebbero dovuto renderlo finalmente immortale ma ironicamente queste contenevano mercurio e lo avvelenarono.
Ad oggi, gli archeologi cinesi non hanno ancora violato la tomba di Qin Shi Huang. Giace lì indisturbato da più di 2000 anni nella sua tomba, mai esplorata.

Nella Cina contemporanea, la storiografia cominciò a rivalutare la figura del primo imperatore. Lo definiva "uno dei grandi eroi della storia cinese". Fino all'apoteosi, dell'affermazione attribuita a Mao Zedong «Egli seppellì vivi 460 studiosi; noi ne abbiamo sepolti vivi quarantaseimila... Voi [intellettuali] ci accusate di essere dei Qin Shi Huang. Vi sbagliate. Noi abbiamo sorpassato Qin Shi Huang di cento volte».




2 – CONFUCIO (K’ung Fu Tsŭ - Confucius)

Confucio rappresenta uno dei più vasti e durevoli fenomeni della coscienza umana; è la viva incarnazione storica dei più profondi istinti di tutta una razza. Poichè quest’uomo il quale ha per tanti secoli improntato del suo pensiero tutto il mondo estremo-orientale, cioè un terzo dell’umanità vivente, ci appare prima di tutto come l’arbitro sublime che fra due età discordi, tra il passato glorioso che si dissolve e l’oscuro avvenire che si dischiude. Negli ultimi anni dei Chou, ove l’anarchia finiva di liquidare una civiltà durata 1500 anni, Egli si alza solo, sul disordine dei tempi, sul polverio della grande rovina e, mentre la società, ormai in preda allo scompiglio, ci viene innanzi ricco di passato, tetragono di fede, immacolato di cuore. Molto si è discusso da qual parte i Cinesi siano immigrati, in età lontanissima, nel territorio che anche oggi posseggono. prendendo come punto di partenza la Birmania d’oggi, di ricostruire il cammino per cui i Cinesi, risalendo dal Sud verso il Nord, sarebbero arrivati, in tappe lente, ma con sicura penetrazione, fino nel cuore della Cina odierna, ove di nomadi divenuti stazionari, adottando una civiltà propria, si sarebbero sùbito distinti dai loro consanguinei indo-cinesi. Avanti di raccogliersi in gruppi, i primi Cinesi intessevano le loro dimore su gli alberi più robusti, scavavano a mo’ di trogloditi, le loro abitazioni nelle pendici dei colli, come anche oggi se ne vedono nello Shan Hsi, per sottrarsi alla minaccia delle belve e delle alluvioni che spesso travagliavano quelle pianure sterminate. Risalendo fino a quel loro stato lontanissimo, noi li intuiamo vegetariani da prima, carnivori più tardi, e li vediamo abbandonare progressivamente i disagi di un inutile vagare, per darsi sempre più alla coltivazione del terreno e al mantenimento degli animali domestici: siamo già fin d’allora in cospetto di un popolo agricolo in cui la vita della famiglia si svolge e permane sopra una base di schietta concezione comunista. Un carattere che rimarrà fra i più peculiari della stirpe, cioè: l’attitudine alla collaborazione reciproca. La supremazia di un capo sulla massa; l’autorità paterna, sindacante l’andamento della famiglia, è di già assai accentuata fin d’allora. La vita a base patriarcale, ma tuttavia pervasa da un sano senso di collettivismo, sbocca di necessità nel concetto del patriarcato sociale: ossia di una società ormai costituita che per difendersi nella sua più alta forma raggiunta, ha bisogno di un duce: allora come il Popolo lega quella sua eredità al Predestinato, al Figlio del Cielo (T’ien Tsŭ), l’Imperatore, a sua volta, perchè questo legato non gli sfugga, investe, in ogni parte del territorio, persone capaci di aiutarlo ad esercitare e a conservare il suo mandato divino. Le prime basi per un regime feudale sono così tracciate.
Da noi l’individuo è tutto: indaga, scopre e fonda; in Cina l’individuo è subordinato all’insieme, in quanto che doveri ben precisi gli incombono, prescritti da quel Tutto di cui egli deve sentirsi una parte. Anche la religione non si svolse separata dall’idea dello Stato. L’Imperatore è anche il Pontefice; i suoi funzionari politici sono anche i suoi sacerdoti.

Questi tre nomi Yao, Shun e Yu, che tutti i letterati cinesi hanno avuto sempre in cuore, all’ultimo dei quali si ricollega, per via ereditaria, la prima Dinastia storica dei Hsia (1989-1559), impersonano l’età dell’oro della vecchia Cina. Yao, è il grande osservatore dei fenomeni naturali; il redattore del calendario; il demarcatore delle quattro stagioni. Tutto ciò per aiutare le occupazioni agricole del popolo le quali devono svolgersi all’unisono della volontà cosmica. Shun, è il grande canalizzatore della terribile alluvione del 2297 a. C. Nel 2278 ha già asciutto il territorio; il suo governo è già governo feudatario: divide l’Impero in nove e poi in dodici province. Egli sale per forza di virtù al potere supremo; il testo dice che era «wei chien chih jen»: «uomo di bassa estrazione nei natali». Yü, aiuta a canalizzare; apre le vie per i monti e per le foreste; stabilisce l’esame trimestrale dei funzionari; il suo governo è perfetto. Le loro gesta, sono descritte a sbalzi efficaci nello Shu Ching o Libro degli Annali che Confucio, accanto allo Shi Ching, Libro dei Carmi; al Yi Ching, Libro delle Trasformazioni; allo Ch’un Ch’iu, Primavera e Autunno (Annali dello Stato di Lu) e al Li Chi, giunto alla sua definitiva redazione più tardi, compilò, negli ultimi anni della sua vita, per uso dei discepoli. Queste cinque opere son chiamate dai Cinesi: «WU CHING» «I cinque libri canonici». Cioè la base della loro cultura, multi millenaria.
Molte dinastie, si susseguono, prima di Confucio. Ma sempre, la regola era in alto l’Imperatore e i Principi, in basso il Popolo. l’Imperatore e i Principi hanno il monopolio dell’intelligenza, il Popolo ha quello dell’obbedienza: ogni individuo è considerato come un piccolo dente che nella gran rota dell’organismo statale ha il suo piccolo vano ove ingranare: l’obbligo è la molla prima di ogni azione individuale. Ma errerebbe chi credesse che tra il basso e l’alto non ci fosse armonia: il Popolo ha investito il predestinato, il Predestinato veglia e regola, per i suoi attributi semidivini, il buon andamento del Popolo: questi, dalla sua fatica quotidiana, intuisce che la fatica dell’Imperatore, nel suo atteggiamento immobile, supera, per complessità e profondità, la sua. Nel suo concetto l’Imperatore è il vero intermediario tra il Cielo e la Terra; perciò è anche Pontefice, e i suoi funzionari come altrettante propaggini della sua duplice potenza. Il Figlio del Cielo ha il suo culto che s’indirizza prima al Cielo e poi ai Geni terrestri: il Popolo ha il culto dei Lari e degli Antenati. Così l’idea religiosa si trova commista all’idea di Stato. Si comprende subito dove si trovi il tallone di Achille per uno Stato così fatto: se chi è a capo della federazione non è una forte personalità, che tenga desto nei Principi feudatari il sentimento della propria supremazia, i legami che tengono unito l’insieme si andranno man mano allentando fino alla disgregazione. Così difatti avvenne. Ai tempi di Confucio le cose erano già arrivate a tal punto che più oltre non potevano andare: non solo il Principe si ribella all’Imperatore, ma pure il servo al Principe.

Quando nasce Confucio, il caos dell’anarchia ondeggia per tutto: spettacolo imponente e miserando! Una grande civiltà durata 1500 anni stava naufragando lentamente per sempre. Confucio, così detto perchè i primi gesuiti latinizzarono il nome cinese K’ung Fu Tsŭ in Confucius, era il rampollo di una vecchia famiglia che vantava origini regali, capaci di risalire fino alla seconda Dinastia Yin, nato dal già settantenne K’ung Shu Liang Ho, sottoprefetto in Tsou, nel reame di Lu (Shan Tung d’oggi) il ventiduesimo anno del Duca Hsiang (551 a. C.) e da una giovinetta Cheng Tsai, della famiglia Wen. Egli nacque con una protuberanza a sommo della testa, perciò ebbe il nome di Ch’iu, «collicello». Una gravità precoce, una inclinazione pronunciata per tutte le cose appartenenti al rituale, lo distinguono fin da piccolo; il suo passatempo più gradito era quello di giuocare con i piccoli vasi usati nelle cerimonie per le offerte. A 19 anni sposa Ch’i Kuan Shi, dopo essere stato per due anni all’ufficio di controllo sulla vendita del grano: quattro anni più tardi eserciterà la stessa funzione sui granai pubblici; poco dopo diviene ispettore generale col mandato di esercitare anche la giustizia per le campagne. Nel 528 gli muore la madre (il padre l’aveva già perso a tre anni) ed Egli si dà tutto allo studio per riempire il periodo obbligatorio di tre anni di ritiro dagli affari pubblici, imposto per legge, nel lutto. La sua visita a Lo, nel Ho Nan d’oggi, è del 518: questo viaggio deve essere stato di capitale importanza per il suo svolgimento interiore. Con una specie di sacro tremore, insegue egli nelle desolate rovine le tracce dell’antica magnificenza; non vi è motivo del passato, con cui non si metta in intima comunione, non vi è frammento antico che non faccia agire sul suo spirito con tutta la gravità della sua muta e concisa eloquenza. Egli ritorna da questo viaggio, come Goethe da Roma, rifatto e ritemprato per le opere immortali: sente ora per la prima volta, lucidamente, che per rendersi padroni dell’avvenire, bisogna sprofondarsi nel passato; sente di più, sente che solo dal passato glorioso egli potrà spremere il farmaco efficace per la salute delle generazioni presenti. La grandezza di Confucio, come quella di altri sommi, s’inizia in una muta e grande concentrazione interiore. Egli diverrà presto l’apostolo di questo suo ideale: è di questa epoca, secondo la leggenda d’invenzione taoista, il suo primo incontro con Lao Tsŭ 13. Ma già la fama della virtù del Maestro era corsa e nel 501 a. C. Ting Kung, succeduto un anno prima nel Reame di Lu, ormai in piena anarchia, al fratello Chao Kung, morto in esilio, chiama Confucio e gli affida il governo della città di Chung Tu. Ora gli è porta finalmente occasione di sperimentare, se le sue teorie vanno d’accordo con la realtà: sembra di sì perchè in breve tempo opera prodigi: le strade si mondano di ladri; regolati sono i rapporti tra uomo e donna; mitigate le tasse; reso più dignitoso il consorzio; addolcito il trattamento del popolo; abolito il soverchio lusso dei funerali. Egli si fa notare in tal modo che Ting Kung, lo crea Ministro dei Lavori pubblici e della Giustizia. Egli ha ormai breve spazio per applicare la sua dottrina che aspira ad arrivare allo Stato perfetto mediante il rinnovamento etico dell’uomo; ciò che non è perfetto non dura. Per quanto la Realpolitik sia, dopo tutto, il suo scopo, vede in questa meno che una parvenza se non si appoggia sopra una solida base spirituale, materiata d’amore e di giustizia.

Intanto lo Stato di Lu, salito a tale floridezza di governo, per merito del Nostro, aveva già destato l’invidia del vicino Reame di Ch’i, il cui Principe dopo averle tentate di tutte, ricorre, per mettere la confusione in Lu, ad un fine stratagemma15: manda alla corte di Ting Kung un’ottantina delle sue più belle cortigiane e un centinaio dei suoi più floridi cavalli. Donne e bestie, combinate insieme, non mancano di produrre l’effetto desiderato. Confucio, già cinquantaquattrenne, lascia, pieno di indignazione, la Corte con una frase, che i discepoli, dopo, raccolsero in questi Dialoghi: «Ahimè! Io non ho visto ancora uno che ami più la verità di un bel viso!».
Vengono ora tredici anni di dure peregrinazioni, attraverso gli Stati Ts’ao, Wei, Sung, Cheng, Ch’en e altri, in compagnia dei suoi discepoli; comincia così la «via crucis» ovvero «via lucis» di Confucio. Invano cerca un Principe di buona volontà che capisca la portata dei suoi ammaestramenti, i quali si prefiggono di rinnovare il mondo, risuscitando il passato; i più lo accolgono con freddezza17 e non sanno che farsi di questo utopista errabondo, spinto, secondo loro, da un’ansia risibile d’impiego, tale da farlo cadere malato se, trascorsi tre mesi dalla carica toltagli, non ne trovi presto un’altra. Muore nel 479 a. C. a 73 anni, stanco, deluso, disperato. Le sue ultime parole furono: «La Fenice non arriva; il fiume non gitta il disegno! è finita per me!».
Egli ci appare in quel periodo di disordine, di anarchia, di dissolvimento, come l’erede legittimo di una grande civiltà defunta ch’egli medita ancora di imporre al suo popolo: il suo «ritorno ideale» non è ripiegamento ma volontà conscia di resurrezione. Questa magnifica attitudine, questo proposito gigantesco che, per le circostanze avverse in cui si mostra, sembra avere del titanico e del chimerico, è la base della grandezza individuale di Confucio, il fulcro della sua gloria nei secoli. I mezzi stessi ch’egli sceglie per realizzare il suo piano, appaiono di una esiguità così voluta che ci sorprende.

Era Egli nel giusto? I secoli par che abbiano dato ragione a Confucio: dopo la sua parola, la Cina non è stata più colpita da disastri paragonabili a quelli che la funestarono durante gli ultimi anni degli Chou; sì che si potrebbe dire del Maestro come in fondo a questi Dialoghi è detto di Wu Wang: «Esso ricondusse alla vita i Reami defunti; ridette la posterità alle interrotte generazioni; trasse alla luce i ritirati in solitudine e tutti i popoli dell’Impero si volsero a lui con l’anima!».  

mercoledì 29 aprile 2020

OCCASIONE PER RILANCIARE IL SISTEMA ITALIA

Corriere della Sera 29 Apr 2020 di Aldo Cazzullo

«È l’occasione per rilanciare tutto il sistema Italia». Vittorio Colao rilascia al Corriere la sua prima intervista: «Ripartiremo a ondate, pronti a chiudere piccole aree se il male riparte. Regole diverse a seconda delle Regioni. Così funzionerà l’app, salvando la privacy».
Vittorio Colao, gli italiani si aspettavano dalla fase 2 più libertà. Personali ed economiche. Che cosa risponde?
«Dal 4 maggio rimettiamo al lavoro quattro milioni e mezzo di italiani, tra costruzioni, manifattura, servizi collegati, ovviamente nel rispetto dei protocolli. Molti sono già partiti lunedì, anche se questo nella comunicazione si è un po’ perso. Ne rimangono due milioni e 700 mila, più la pubblica amministrazione. È una base per poter fare una riapertura progressiva e completa. Sarà un test importante. Dipenderà dai buoni comportamenti. Un’apertura a ondate permette di verificare la robustezza del sistema».
C’è anche chi dice invece che stiamo riaprendo troppo presto. In Germania i casi aumentano, la Francia rinvia l’apertura delle scuole. L’italia ripartirà in sicurezza?
«Abbiamo raccomandato tre precondizioni che vanno monitorate. La prima: il controllo giornaliero dell’andamento dell’epidemia. La seconda: la tenuta del sistema ospedaliero, non solo le terapie intensive, anche i posti-letto Covid. La terza: la disponibilità di mascherine, gel e altri materiali di protezione. A queste condizioni si può riaprire».
E se l’epidemia riparte?
«L’approccio non dovrà essere nazionale e neppure regionale, ma microgeografico: occorre intervenire il più in fretta possibile, nella zona più piccola possibile. Abbiamo indicato al governo un processo. L’importante è che le misure siano tempestive; nella speranza che non siano necessarie».
Appunto: perché trattare allo stesso modo l’umbria, che ha meno di dieci casi al giorno, e la Lombardia, che ne ha quasi mille? Non è meglio differenziare le regole a seconda delle Regioni?
«Io ho mezza famiglia a Catanzaro e mezza a Brescia. I numeri dell’epidemia sono molto distanti; nel lungo termine non li si può gestire allo stesso modo. Dovremo rispondere diversamente, per non penalizzare le zone che hanno
meno casi. L’importante è che l’italia si doti di un sistema per condividere le informazioni. La trasparenza sarà fondamentale. Se tanti lombardi e piemontesi vanno in Liguria, ogni Regione guarderà i suoi numeri, ma il ministero della Sanità dovrà guardare alle interrelazioni, per capire se il movimento crea focolai. Lo stesso vale per il corridoio di trasporto tra Lazio e Toscana. I numeri ci diranno quando potremo proseguire con le riaperture, minimizzando il danno economico e massimizzando la sicurezza».
Molte aziende sono aperte. Ma non ci sono regole chiare sui test.
«Gli italiani devono abituarsi a convivere con il problema. Molte imprese si stanno attrezzando per inserire i test nelle loro procedure di sicurezza interne; il Comitato tecnicoscientifico individuerà quello più affidabile. A livello individuale abbiamo l’app, a livello di grandi numeri lo screening».
L’app servirà davvero?
«Potrà servire se arriva in fretta, e se la scarica la grande maggioranza degli italiani. È importante lanciarla entro la fine di maggio; se quest’estate l’avremo tutti o quasi, bene; altrimenti servirà a poco».
Se la sente di garantire che non sarà una violazione della privacy da parte dello Stato?
«Non è così. Non è stato scelto il sistema centralizzato, che manteneva l’identità di tutti i contatti. E’ stata scelta l’altra soluzione, quella Apple-google. I contatti stanno solo sui telefonini delle persone. Quando scopro di essere contagiato, sono io che metto dentro un codice, che rilascia una serie di codici alle persone con cui sono entrato in contatto. Tutto avviene in modo anonimo: l’individuo viene informato dal sistema, ma il sistema non sa chi sono i due; la privacy dei due individui è mantenuta.
Nessuno conosce l’altro. Il sistema sanitario locale — se vorrà — potrà disegnare l’app in modo da contattare i cittadini, ma in trasparenza».
Pensa davvero che gli italiani la scaricheranno?
«Se gli verrà spiegato bene, lo faranno. Se vivessi in un piccolo paese e fossi contagiato, avviserei chi mi è stato vicino di stare attento. L’app lo fa in automatico e anonimamente: mi avviserebbe che sono stato in contatto con un contagiato, e devo chiamare il servizio sanitario. Non vedo perché gli italiani dovrebbero rinunciare a informazioni che non limitano ma rafforzano la loro libertà».
Come faranno i negozianti ad attendere il 18 maggio? E i bar e ristoranti a resistere fino a giugno?
«Le riaperture di negozi e bar, e tantomeno delle chiese, non sono di competenza del nostro Comitato; sono decise dal governo sulla base di input sanitari. Noi siamo advisor: ci è stato chiesto di dare consigli su come far ripartire costruzioni e manifattura. La riapertura progressiva ti fa capire meglio a quale velocità devi andare. È una malattia che non ha una mortalità altissima, ma può mettere in ginocchio il sistema sanitario; è un dovere morale evitarlo. Sento parlare di distanziamento sociale; dovremmo parlare di distanziamento fisico. La società deve essere più unita e coesa di prima. È il momento di collaborare, tutti: andando in ufficio in bicicletta, spalmando gli orari di ingresso, continuando con lo smartworking».
Si dice che siate troppi. State funzionando? E quanto costate?
«Troppi? La presidenza del Consiglio ha creato tre strutture: il commissario Covid che garantisce che arrivino mascherine e altro materiale; il Comitato tecnico-scientifico, che esiste in tutti i Paesi; e noi, che siamo chiamati ora a fare proposte per il rilancio, per il 2020 e il 2021. Noi del Comitato economico-sociale siamo tutti volontari. Nessuno guadagna nulla, come è giusto che sia».
Lei è qui per prendere il posto di Conte?
«Non ho nessuna intenzione di fare politica. Mi è stato chiesto di aiutare a gestire una fase complicata, con un gruppo di persone esperte di diverse materie».
Chi gliel’ha chiesto? Conte o Mattarella?
«Il presidente Conte. Stavo passeggiando in giardino, qui a Londra si può. Ho chiesto due ore per avvisare la General Atlantic, cui dedicavo metà del mio tempo, e le altre società cui collaboravo. Mi hanno risposto: of course, naturalmente puoi e devi fare qualcosa per il tuo Paese. Alla fine tornerò al mio lavoro. Molti manager l’hanno fatto, in molti Paesi; solo in Italia si pensa che vogliano fare politica. Sono state scritte anche altre inesattezze».
Quali?
«Non abbiamo mai proposto di chiudere in casa i sessantenni. L’hanno creduto in tanti, anche Fiorello. Abbiamo solo posto il tema dei muratori nei piccoli cantieri e dei lavoratori nelle manifatture minori».
Quali misure proporrà per il rilancio?
«Siamo all’inizio: abbiamo appena ascoltato il presidente della conferenza dei rettori, nei prossimi giorni sentiremo tutte le categorie. Siamo divisi in sei gruppi di lavoro, che coprono tutte le parti produttive e sociali: aziende, istruzione, turismo, cultura, famiglie, pubblica amministrazione… Abbiamo l’opportunità di fare in ognuno di questi campi cose che avrebbero richiesto molto più tempo. Mai lasciarsi sfuggire una crisi».
È l’occasione per ricostruire la macchina dello Stato?
«Non solo: è l’occasione per rilanciare tutto il sistema Italia. Il Paese ha imparato a usare le nuove tecnologie, i nuovi strumenti per comunicare. Dobbiamo ammodernare i modelli commerciali delle nostre imprese. Aumentare la partecipazione femminile al lavoro, sostenendo al contempo la natalità, aiutando le madri che lavorano».
Le scuole chiuse non aiutano.
«Abbiamo raccomandato congedi parentali retribuiti e bonus per baby-sitter; ovviamente occorrerà prendere misure strutturali. Dovremo massimizzare l’utilizzo dei beni culturali, artistici, ambientali. Riaprire corridoi turistici, appena possibile. Ed estendere le stagioni».
Si andrà in vacanza quest’estate?
«Spero di sì. Andremo più vicini, avremo un turismo più locale. Il nostro grado di libertà dipende da come ci comportiamo da qui a luglio. Sta a noi rispettare la distanza fisica e non vanificare gli sforzi fatti finora».
La sua città, Brescia, è tra le più colpite. Molte aziende chiuderanno al Nord? O l’economia ripartirà?
«Direi di sì, che ripartirà. Non è un sì senza condizioni. Bisogna aiutare le imprese sul fronte della liquidità. Ammodernarne le strutture produttive e distributive. Farle lavorare con meno gravami amministrativi, meno complicazioni: tutti lo dicono ma nessuno lo fa, perché è difficile farlo; ma il momento è adesso. Servirà un intervento dello Stato, spero temporaneo, senza sussidi a lungo termine: la Cassa depositi e prestiti può essere lo strumento giusto. Tra 12-18 mesi potremo aver superato la tempesta».
Quanti soldi servono, e dove?
«C’è un ministro dell’economia che decide dove mettere i soldi. Noi possiamo indicare le iniziative che danno il miglior ritorno».
Ci attende una recessione, o c’è il rischio di una depressione globale?
«Il rischio c’è. Dipende da due cose che nessuno conosce: la scoperta di una terapia e di un vaccino; e la governance mondiale. Serve un coordinamento internazionale. Se ognuno guarda il suo orticello e non coordina le proprie misure con gli altri le conseguenze saranno pesanti. L’europa è chiamata a dare risposte comuni su trasporto merci, circolazione delle persone, protocolli per la sicurezza. Se la Francia o la Germania decidono una cosa diversa dall’italia, una parte delle risorse si sposterà. Evitiamo di danneggiarci a vicenda».
Cosa pensa degli aiuti russi e cinesi? Filantropia? O geopolitica?
«È una domanda da fare al ministro degli Esteri. Dico solo questo: è importante che ci sia il dialogo. Dobbiamo mantenere una visione multilaterale. Ce l’ha insegnato il virus, che non guarda alle nostre divisioni».
Lei continua a lavorare da Londra?
«Sì. Se fossi tornato avrei dovuto fare due settimane di quarantena, avrei perso tempo. Dobbiamo tutti imparare a lavorare in modo diverso. Ho guidato una multinazionale come Vodafone via video, dall’india al Sudafrica. In certi casi gli spostamenti sono controproducenti. Abbiamo iniziato a lavorare la mattina di Pasqua e neanche ci conoscevamo; dopo dieci giorni abbiamo consegnato le prime raccomandazioni. Se ci fossimo visti di persona, probabilmente non ce l’avremmo fatta».
L’approccio non sarà nazionale o regionale ma microgeografico per intervenire in fretta nella zona più piccola possibile

venerdì 3 aprile 2020

L'AZIONE SOLIDALE PER L'EUROPA IN VISTA DELL'EUROGRUPPO DEL PROSSIMO 7 APRILE - PARTE SECONDA - LA LETTERA DI CONTE A URSULA VON DER LEYEN E ALTRO......IN ATTESA DEL D DAY

Ecco la lettera con cui il presidente del Consiglio Giuseppe Conte risponde all’intervento della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen pubblicato ieri da Repubblica:
Cara Ursula,
ho apprezzato il sentimento di vicinanza e condivisione che ha ispirato le parole con cui ieri, dalle pagine di questo giornale, ti sei rivolta alla nostra comunità nazionale e, in particolare, al nostro personale sanitario, che, con grande sacrificio e responsabilità, è severamente impegnato nel fronteggiare questa emergenza. Le tue parole sono la prova che la determinazione degli italiani ha scosso le coscienze di tutti, travalicando i confini nazionali e ponendo la riflessione oggi più urgente: cosa è disposta a fare l’Europa non per l’Italia, ma per se stessa. In questi giorni ho ricordato spesso come l’emergenza che stiamo vivendo richieda una risposta straordinaria, poiché la natura e le caratteristiche della crisi in corso sono tali da mettere a repentaglio l’esistenza stessa della casa comune europea. Non abbiamo scelta, la sfida è questa: siamo chiamati a compiere un salto di qualità che ci qualifichi come "unione" da un punto di vista politico e sociale, prima ancora che economico. L’Italia sa che la ricetta per reggere questa sfida epocale non può essere affidata ai soli manuali di economia. Deve essere la solidarietà l’inchiostro con cui scrivere questa pagina di storia: la storia di Paesi che stanno contraendo debiti per difendersi da un male di cui non hanno colpa, pur di proteggere le proprie comunità, salvaguardando le vite dei suoi membri, soprattutto dei più fragili, e pur di preservare il proprio tessuto economico-sociale.
La solidarietà europea, come hai tu stessa ricordato, nei primi giorni di questa crisi non si è avvertita e ora non c’è altro tempo da perdere. Accogliamo con favore la proposta della Commissione europea di sostenere, attraverso il piano "Sure" da 100 miliardi di euro, i costi che i governi nazionali affronteranno per finanziare il reddito di quanti si trovano temporaneamente senza lavoro in questa fase difficile. È una iniziativa positiva, poiché consentirebbe di emettere obbligazioni europee per un importo massimo di 100 miliardi di euro, a fronte di garanzie statali intorno ai 25 miliardi di euro.
Ma le risorse necessarie per sostenere i nostri sistemi sanitari, per garantire liquidità in tempi brevi a centinaia di migliaia di piccole e medie imprese, per mettere in sicurezza occupazione e redditi dei lavoratori autonomi, sono molte di più. E questo non vale certo solo per l’Italia. Per questo occorre andare oltre. Altri player internazionali, come gli Stati Uniti, stanno mettendo in campo uno sforzo fiscale senza precedenti e non possiamo permetterci, come italiani e come europei, di perdere non soltanto la sfida della ricostruzione delle nostre economie, ma anche quella della competizione globale.
Quando si combatte una guerra, è obbligatorio sostenere tutti gli sforzi necessari per vincere e dotarsi di tutti gli strumenti che servono per avviare la ricostruzione. A questo proposito, nei giorni scorsi ho lanciato la proposta di un’European Recovery and Reinvestment Plan.
Si tratta di un progetto coraggioso e ambizioso che richiede un supporto finanziario condiviso e, pertanto, ha bisogno di strumenti innovativi come gli European Recovery Bond: dei titoli di Stato europei che siano utili a finanziare gli sforzi straordinari che l’Europa dovrà mettere in campo per ricostruire il suo tessuto sociale ed economico. Come ho già chiarito, questi titoli non sono in alcun modo volti a condividere il debito che ognuno dei nostri Paesi ha ereditato dal passato, e nemmeno a far sì che i cittadini di alcuni Paesi abbiano a pagare anche un solo euro per il debito futuro di altri. Si tratta - piuttosto - di sfruttare a pieno la vera "potenza di fuoco" della famiglia europea, di cui tutti noi siamo parte, per dare vita a un grande programma comune e condiviso di sostegno e di rilancio della nostra economia, e per assicurare un futuro degno alle famiglie, alle imprese, ai lavoratori, e a tutti i nostri figli.
Al termine dell’ultimo Consiglio europeo dello scorso 26 marzo, ci siamo dati due settimane di tempo per raccogliere questa sfida.
Purtroppo, alcune anticipazioni dei lavori tecnici che ho potuto visionare non sembrano affatto all’altezza del compito che la storia ci ha assegnato.
Si continua a insistere nel ricorso a strumenti come il Mes che appaiono totalmente inadeguati rispetto agli scopi da perseguire, considerato che siamo di fronte a uno shock epocale a carattere simmetrico, che non dipende dai comportamenti di singoli Stati. È il momento di mostrare più ambizione, più unità e più coraggio. Di fronte a una tempesta come il Covid-19 che riguarda tutti, non serve un salvagente per l’Italia: serve una scialuppa di salvataggio solida, europea, che conduca i nostri Paesi uniti al riparo. Non chiediamo a nessuno di remare per noi, perché abbiamo braccia forti. "Le decisioni che prendiamo oggi verranno ricordate per anni. Daranno forma all’Europa di domani", hai scritto ieri nel tuo intervento. Sono d’accordo. Il 2020 sarà uno spartiacque nella storia della Ue.
Ciascun attore istituzionale sarà chiamato a rispondere, anche ai posteri, delle proprie posizioni e del proprio operato. Solo se avremo coraggio, se guarderemo davvero il futuro con gli occhi della solidarietà e non col filtro degli egoismi, potremo ricordare il 2020 non come l’anno del fallimento del sogno europeo ma della sua rinascita.

In attesa di superare lo stallo su Coronabond e Mes, ieri la Commissione europea ha lanciato ufficialmente il primo strumento anti-crisi. Si tratta di Sure, (acronimo di Support to mitigate unemployment risks in emergency), un fondo europeo contro la disoccupazione che attraverso 25 miliardi di garanzie volontarie degli Stati permetterà di finanziare le casse integrazioni nazionali o schemi simili di protezione dei posti di lavoro. Sure funzionerà così: raccoglierà risorse sui mercati emettendo bond con tripla A, quindi a tassi bassissimi, che darà poi ai Paesi che ne hanno bisogno con scadenze a lungo termine. «Con questo nuovo strumento di solidarietà mobiliteremo 100 miliardi per mantenere le persone nei loro posti di lavoro e sostenere le imprese» ha aggiunto la presidente della Commissione Ursula von der Leyen.
Il vice presidente della Commissione Europea, Valdis Dombrovskis, parlando con la Repubblica, afferma che l’Unione Europea tiene aperte tutte le opzioni, compresi gli eurobond. Ecco la sua intervista:
Cosa propone Bruxelles per una reazione immediata alla crisi?
«Serve una risposta rapida e senza precedenti. Nelle ultime settimane abbiamo sospeso il Patto di stabilità e il divieto di aiuti di Stato alle imprese.
Inoltre ci sono state le decisioni della Bce. Oggi portiamo un nuovo pacchetto: l’obiettivo è di preservare quanto più possibile imprese e occupazione. Più aziende salviamo, più posti di lavoro manteniamo, più veloce sarà la ripresa economica.
Ecco perché abbiamo proposto "Sure", uno strumento che avrà fino a 100 miliardi da prestare ai governi nazionali a condizioni vantaggiose per sostenere gli ammortizzatori sociali. Inoltre abbiamo accordato massima flessibilità su come usare i fondi europei: potranno essere impiegati senza co-finanziamento nazionale e trasferiti tra le regioni di un Paese».
Come raccoglierete i 100 miliardi di "Sure"?
«Chiediamo ai governi di fornirci garanzie per 25 miliardi: a quel punto la Commissione andrà sui mercati per raccogliere soldi che presteremo a condizioni favorevoli ai paesi che li richiederanno. "Sure" è interessante per i Paesi che hanno alti costi di finanziamento sui mercati».Va bene, ma basterà?
«Stiamo mettendo in campo diverse misure capaci di aiutare i paesi con un alto costo di finanziamento, altre sono in discussione. L’Unione e i governi sono determinati a fare il necessario per assicurare una ripresa rapida».
I governi sono spaccati sul Mes: alcuni chiedono di attivarlo senza condizionalità, altri invece vogliono impegni su un futuro di austerità. La Commissione cosa ne pensa?
«È logico usare il Mes come prossima linea di difesa perché è già capitalizzato e ha già capacità di prestito. Dobbiamo trovare un compromesso pragmatico, una soluzione su misura per questa crisi che ci permetta di attivarlo. Una qualche forma di condizionalità è legalmente necessaria, ma non stiamo parlando di una classica condizionalità macroeconomica».
Si litiga anche sulla possibilità di reperire risorse sui mercati per aiutare l’economia a superare la recessione: lei è favorevole agli Eurobond?
«Siamo in costante contatto con i governi. Sappiamo che stanno preparando delle proposte e sul tavolo c’è già quella francese. La Commissione lo ha detto chiaramente: siamo aperti a ogni opzione, abbiamo bisogno di una risposta ambiziosa, coordinata ed efficace contro la crisi. Siamo pronti a facilitare questo lavoro».
Von der Leyen ha affermato che il bilancio Ue dei prossimi sette anni dovrà essere un Piano Marshall contro la crisi: ce la farete visto che sul budget è sempre difficile mettere d’accordo i governi?
«Lavoriamo al Recovery plan per far ripartire l’economia. Un suo elemento importante sarà il bilancio.
Il prossimo quadro finanziario dovrà essere ambizioso e dovrà contenere una forte componente di investimenti per sostenere la ripresa. Se lavoreremo seguendo il business as usual, passerà almeno un anno prima che questi fondi siano immessi nell’economia. Non possiamo accettarlo, abbiamo bisogno di soluzioni per mettere subito in circuito il denaro».
Quindi il dialogo non manca ma:
L’Europa fatica a prendere una decisione politica sulla risposta da dare alla paralisi economica provocata da Covid 19, per il momento si muovono i singoli stati, con piani di salvataggio basati principalmente su un aumento del debito. Ma se il bilancio non è solido, sale il rischio di un declassamento del rating da parte delle agenzie, il che rende molto più complicato il collocamento dei nuovi bond, se ne è avuto un anticipo ieri con l'asta del nuovo bono spagnolo a trent'anni, la domanda è stata molto fiacca, su livelli che non si vedevano da circa dieci anni.

Intanto nel mondo, 3,9 miliardi di persone, circa la metà del genere umano, è costretta in casa. È stato superato il milione di contagi nei numeri ufficiali, molto di più nella realtà, l'immunità di gregge è ancora lontana.

giovedì 2 aprile 2020

L'AZIONE SOLIDALE PER L'EUROPA IN VISTA DELL'EUROGRUPPO DEL PROSSIMO 7 APRILE - PARTE PRIMA

Ammontano a 100 miliardi di euro i nuovi aiuti che l’Ue discuterà informalmente da oggi. Non denaro a pioggia, ma, come anticipato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, nuove obbligazioni sul mercato internazionale dei capitali e garantite da tutti gli stati membri. Una mutualizzazione non del debito ma delle garanzie. Il ricavato andrà a una sorta di cassa integrazione europea come prestiti ai paesi più colpiti da disoccupazione causata dal coronavirus, e che presentino piani attivi di rientro al lavoro. Se il compromesso riceverà un primo via libera per affinarsi fino all’Eurogruppo del 7 aprile, ci si porta a casa il risultato, al di là di tutte le polemiche faziose di questi giorni. Interverrebbe la Bei, la Banca europea per gli investimenti.

BEI, UNA POSSIBILE VIA DI FUGA
La Banca europea per gli investimenti (BEI) è proprietà comune dei paesi dell’UE. Il suo obiettivo è:
  • accrescere le potenzialità dell'Europa in termini di occupazione crescita 
E' salita alla ribalta la Banca Europea degli Investimenti (BEI) nel ruolo di MES “buono”. In effetti, proprio il Direttore del MES Klaus Regling aveva dichiarato martedì scorso, al termine dell’Eurogruppo, che i coronabond ci sono già e sono le obbligazioni emesse dal MES (garantite dai 19 Paesi dell’Eurozona) e quelli emesse dalla BEI (garantite dai 27 Paesi della UE). Basta osservare le regole che questi istituti applicano per prestare denaro.Forte della garanzia degli Stati UE, raccoglie denaro sui mercati internazionali emettendo obbligazioni col massimo rating “AAA” (quindi a tassi prossimi allo zero) e li presta a favore di piccole e medie imprese ed enti locali prevalentemente della UE. Al 31/12/2019 aveva erogato prestiti per €560 miliardi, di cui 70 (12%) destinati all’Italia. Già il 16 marzo il Presidente della BEI è intervenuto, raschiando il fondo del bilancio, ed ha messo a disposizione prestiti che avrebbero attivato 40 miliardi di investimenti, poca cosa ma quello c’era in cassa. Ora, per erogare ulteriori prestiti ci vuole altro capitale o garanzie. Ma qui l’Italia deve mettere mano al portafoglio, perché è azionista della BEI al 19% circa, alla pari con Francia e Germania. L’ipotesi alla quale pare si stia lavorando è l’attivazione di un fondo di garanzia per 25 miliardi che potrebbe generare prestiti della BEI per 75 miliardi (la leva di 3,5 volte) che, a loro volta, concorrerebbero a finanziare investimenti per ulteriori 200 miliardi.