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sabato 9 maggio 2020

IL TEMPO DEL DRAGONE

Estratto su un paio di situazioni che mettono in evidenza l'identità culturale del popolo Cinese:

1- IL PRIMO IMPERATORE E LE SUE GRANDI OPERE


A causa della grande siccità che durante l’inverno aveva colpito la provincia dello Shanxii e tutto il nord della Cina, nel Marzo del 1974 i contadini dei villaggi intorno al Monte Li si misero a cercare l’acqua scavando pozzi nella campagna. I contadini erano soliti trovare cocci di terracotta che raccoglievano e riutilizzavano. Ma un giorno i cocci che vennero alla luce erano molto diversi da quelli che i contadini erano soliti trovare: avevano delle sembianze quasi umane.
I contadini li raccolsero e li portarono al villaggio. Gli anziani erano molto superstiziosi e pensarono che l’aver portato via quei cocci dal terreno potesse in qualche modo fare infuriare gli spiriti: per giorni gli abitanti del villaggio ritornarono sul luogo del ritrovamento a pregare ed accendere incensi per placare l’ira degli dei. Tra essi però vi era un contadino che, come spesso accade, vide “un pochino più in là degli altri”. Yang Zhifa, questo il suo nome secondo antichi libri, decise di avvertire le autorità cinesi del ritrovamento. Sul posto venne mandata un’equipe di esperti: dopo più di 2000 anni l’esercito di terracotta rivedeva finalmente la luce. Da allora gli scavi proseguirono lentamente e con molta prudenza: ad oggi sono state riportate alla luce circa 6000 statue che sono diventate velocemente la seconda più famosa attrazione del Regno di Mezzo dopo la Grande Muraglia Cinese. Si racconta che i contadini non ricevettero mai un compenso per la scoperta. Tutti tranne l’astuto Yang Zhifa che ottenne un premio equivalente al suo stipendio di un anno e da allora la sua vita si fece agiata.
Da questo ritrovamento esplose la curiosità, anche al di fuori della Cina, per chi aveva voluto e concepito tutto ciò e cioè:

Qin Shi Huang

La sua sepoltura rimane tutt’oggi sotto un tumulo di terra alto 50 metri e il contenuto del suo mausoleo resta ancora un mistero. Le antiche scritture dello storico Sima Qian narrano che la costruzione dell’immenso palazzo e dell’esercito che lo difende furono realizzati con il lavoro coatto di più di 700.000 uomini e la realizzazione richiese più di 40 anni. Qin Shi Huang era un leggendario e controverso sovrano. L’uomo che, durante il 3° secolo A.C, seppe unificare sotto il suo regno un immenso territorio creando di fatto la Cina. Ma non si limitò a far costruire la sua tomba mausoleo. Avviò diversi grandi progetti di costruzione, tra cui: un sistema di trasporti esteso oltre 4.000 miglia che comprendeva città, strade, vie d’acqua e canali. Diede inizio anche all’immenso progetto di costruzione della Grande Muraglia, per difendere la Cina dalle invasioni dei popoli nomadi del Nord. La Grande Muraglia è oggi ritenuta una delle più grandiose costruzioni militari della storia.
Verso la fine del suo regno, fece salpare diverse navi, alla ricerca dell’elisir dell’immortalità per garantirsi vita eterna. Il regno di Qin divenne, per quell’epoca, il più esteso al mondo; si dice che il termine Cina derivi daQin, che si pronuncia Cin. Quanto ha fatto Qin Shi Huang, ha meritato il plauso e l’approvazione degli storici cinesi. Tuttavia, Qin Shi Huang fu anche un noto tiranno che imponendo leggi severe, rese dura e miserabile la vita della gente, per cui Qin Shi Huang divenne sinonimo di atrocità. Impose ai sudditi tasse pesanti e lavoro obbligatorio. All’epoca della dinastia Qin c’erano circa 10 milioni di abitanti nel Paese e 2 milioni vennero chiamati a lavorare ai suoi progetti di costruzione. Estese le dure punizioni inflitte per legge ai carcerati anche ai loro parenti, per via delle cosiddette ’responsabilità collettive’”. Inoltre, il suo regime cercò di controllare il popolo e di sopprimere la libertà di pensiero. Ordinò che i preziosi testi classici fossero dati alle fiamme e che migliaia di studiosi venissero uccisi, quando riteneva che le sue politiche fossero messe in discussione e criticate.
«Io ho apportato l'ordine alla folla degli esseri e sottomesso alla prova gli atti e le realtà: ogni cosa ha il nome che le conviene. Io ho distrutto nell'Impero i libri inutili. Io ho favorito le scienze occulte, affinché si cercasse per me, nel paese, la droga d'immortalità.»
Secondo la leggenda, i suoi dottori avevano confezionato delle pillole che avrebbero dovuto renderlo finalmente immortale ma ironicamente queste contenevano mercurio e lo avvelenarono.
Ad oggi, gli archeologi cinesi non hanno ancora violato la tomba di Qin Shi Huang. Giace lì indisturbato da più di 2000 anni nella sua tomba, mai esplorata.

Nella Cina contemporanea, la storiografia cominciò a rivalutare la figura del primo imperatore. Lo definiva "uno dei grandi eroi della storia cinese". Fino all'apoteosi, dell'affermazione attribuita a Mao Zedong «Egli seppellì vivi 460 studiosi; noi ne abbiamo sepolti vivi quarantaseimila... Voi [intellettuali] ci accusate di essere dei Qin Shi Huang. Vi sbagliate. Noi abbiamo sorpassato Qin Shi Huang di cento volte».




2 – CONFUCIO (K’ung Fu Tsŭ - Confucius)

Confucio rappresenta uno dei più vasti e durevoli fenomeni della coscienza umana; è la viva incarnazione storica dei più profondi istinti di tutta una razza. Poichè quest’uomo il quale ha per tanti secoli improntato del suo pensiero tutto il mondo estremo-orientale, cioè un terzo dell’umanità vivente, ci appare prima di tutto come l’arbitro sublime che fra due età discordi, tra il passato glorioso che si dissolve e l’oscuro avvenire che si dischiude. Negli ultimi anni dei Chou, ove l’anarchia finiva di liquidare una civiltà durata 1500 anni, Egli si alza solo, sul disordine dei tempi, sul polverio della grande rovina e, mentre la società, ormai in preda allo scompiglio, ci viene innanzi ricco di passato, tetragono di fede, immacolato di cuore. Molto si è discusso da qual parte i Cinesi siano immigrati, in età lontanissima, nel territorio che anche oggi posseggono. prendendo come punto di partenza la Birmania d’oggi, di ricostruire il cammino per cui i Cinesi, risalendo dal Sud verso il Nord, sarebbero arrivati, in tappe lente, ma con sicura penetrazione, fino nel cuore della Cina odierna, ove di nomadi divenuti stazionari, adottando una civiltà propria, si sarebbero sùbito distinti dai loro consanguinei indo-cinesi. Avanti di raccogliersi in gruppi, i primi Cinesi intessevano le loro dimore su gli alberi più robusti, scavavano a mo’ di trogloditi, le loro abitazioni nelle pendici dei colli, come anche oggi se ne vedono nello Shan Hsi, per sottrarsi alla minaccia delle belve e delle alluvioni che spesso travagliavano quelle pianure sterminate. Risalendo fino a quel loro stato lontanissimo, noi li intuiamo vegetariani da prima, carnivori più tardi, e li vediamo abbandonare progressivamente i disagi di un inutile vagare, per darsi sempre più alla coltivazione del terreno e al mantenimento degli animali domestici: siamo già fin d’allora in cospetto di un popolo agricolo in cui la vita della famiglia si svolge e permane sopra una base di schietta concezione comunista. Un carattere che rimarrà fra i più peculiari della stirpe, cioè: l’attitudine alla collaborazione reciproca. La supremazia di un capo sulla massa; l’autorità paterna, sindacante l’andamento della famiglia, è di già assai accentuata fin d’allora. La vita a base patriarcale, ma tuttavia pervasa da un sano senso di collettivismo, sbocca di necessità nel concetto del patriarcato sociale: ossia di una società ormai costituita che per difendersi nella sua più alta forma raggiunta, ha bisogno di un duce: allora come il Popolo lega quella sua eredità al Predestinato, al Figlio del Cielo (T’ien Tsŭ), l’Imperatore, a sua volta, perchè questo legato non gli sfugga, investe, in ogni parte del territorio, persone capaci di aiutarlo ad esercitare e a conservare il suo mandato divino. Le prime basi per un regime feudale sono così tracciate.
Da noi l’individuo è tutto: indaga, scopre e fonda; in Cina l’individuo è subordinato all’insieme, in quanto che doveri ben precisi gli incombono, prescritti da quel Tutto di cui egli deve sentirsi una parte. Anche la religione non si svolse separata dall’idea dello Stato. L’Imperatore è anche il Pontefice; i suoi funzionari politici sono anche i suoi sacerdoti.

Questi tre nomi Yao, Shun e Yu, che tutti i letterati cinesi hanno avuto sempre in cuore, all’ultimo dei quali si ricollega, per via ereditaria, la prima Dinastia storica dei Hsia (1989-1559), impersonano l’età dell’oro della vecchia Cina. Yao, è il grande osservatore dei fenomeni naturali; il redattore del calendario; il demarcatore delle quattro stagioni. Tutto ciò per aiutare le occupazioni agricole del popolo le quali devono svolgersi all’unisono della volontà cosmica. Shun, è il grande canalizzatore della terribile alluvione del 2297 a. C. Nel 2278 ha già asciutto il territorio; il suo governo è già governo feudatario: divide l’Impero in nove e poi in dodici province. Egli sale per forza di virtù al potere supremo; il testo dice che era «wei chien chih jen»: «uomo di bassa estrazione nei natali». Yü, aiuta a canalizzare; apre le vie per i monti e per le foreste; stabilisce l’esame trimestrale dei funzionari; il suo governo è perfetto. Le loro gesta, sono descritte a sbalzi efficaci nello Shu Ching o Libro degli Annali che Confucio, accanto allo Shi Ching, Libro dei Carmi; al Yi Ching, Libro delle Trasformazioni; allo Ch’un Ch’iu, Primavera e Autunno (Annali dello Stato di Lu) e al Li Chi, giunto alla sua definitiva redazione più tardi, compilò, negli ultimi anni della sua vita, per uso dei discepoli. Queste cinque opere son chiamate dai Cinesi: «WU CHING» «I cinque libri canonici». Cioè la base della loro cultura, multi millenaria.
Molte dinastie, si susseguono, prima di Confucio. Ma sempre, la regola era in alto l’Imperatore e i Principi, in basso il Popolo. l’Imperatore e i Principi hanno il monopolio dell’intelligenza, il Popolo ha quello dell’obbedienza: ogni individuo è considerato come un piccolo dente che nella gran rota dell’organismo statale ha il suo piccolo vano ove ingranare: l’obbligo è la molla prima di ogni azione individuale. Ma errerebbe chi credesse che tra il basso e l’alto non ci fosse armonia: il Popolo ha investito il predestinato, il Predestinato veglia e regola, per i suoi attributi semidivini, il buon andamento del Popolo: questi, dalla sua fatica quotidiana, intuisce che la fatica dell’Imperatore, nel suo atteggiamento immobile, supera, per complessità e profondità, la sua. Nel suo concetto l’Imperatore è il vero intermediario tra il Cielo e la Terra; perciò è anche Pontefice, e i suoi funzionari come altrettante propaggini della sua duplice potenza. Il Figlio del Cielo ha il suo culto che s’indirizza prima al Cielo e poi ai Geni terrestri: il Popolo ha il culto dei Lari e degli Antenati. Così l’idea religiosa si trova commista all’idea di Stato. Si comprende subito dove si trovi il tallone di Achille per uno Stato così fatto: se chi è a capo della federazione non è una forte personalità, che tenga desto nei Principi feudatari il sentimento della propria supremazia, i legami che tengono unito l’insieme si andranno man mano allentando fino alla disgregazione. Così difatti avvenne. Ai tempi di Confucio le cose erano già arrivate a tal punto che più oltre non potevano andare: non solo il Principe si ribella all’Imperatore, ma pure il servo al Principe.

Quando nasce Confucio, il caos dell’anarchia ondeggia per tutto: spettacolo imponente e miserando! Una grande civiltà durata 1500 anni stava naufragando lentamente per sempre. Confucio, così detto perchè i primi gesuiti latinizzarono il nome cinese K’ung Fu Tsŭ in Confucius, era il rampollo di una vecchia famiglia che vantava origini regali, capaci di risalire fino alla seconda Dinastia Yin, nato dal già settantenne K’ung Shu Liang Ho, sottoprefetto in Tsou, nel reame di Lu (Shan Tung d’oggi) il ventiduesimo anno del Duca Hsiang (551 a. C.) e da una giovinetta Cheng Tsai, della famiglia Wen. Egli nacque con una protuberanza a sommo della testa, perciò ebbe il nome di Ch’iu, «collicello». Una gravità precoce, una inclinazione pronunciata per tutte le cose appartenenti al rituale, lo distinguono fin da piccolo; il suo passatempo più gradito era quello di giuocare con i piccoli vasi usati nelle cerimonie per le offerte. A 19 anni sposa Ch’i Kuan Shi, dopo essere stato per due anni all’ufficio di controllo sulla vendita del grano: quattro anni più tardi eserciterà la stessa funzione sui granai pubblici; poco dopo diviene ispettore generale col mandato di esercitare anche la giustizia per le campagne. Nel 528 gli muore la madre (il padre l’aveva già perso a tre anni) ed Egli si dà tutto allo studio per riempire il periodo obbligatorio di tre anni di ritiro dagli affari pubblici, imposto per legge, nel lutto. La sua visita a Lo, nel Ho Nan d’oggi, è del 518: questo viaggio deve essere stato di capitale importanza per il suo svolgimento interiore. Con una specie di sacro tremore, insegue egli nelle desolate rovine le tracce dell’antica magnificenza; non vi è motivo del passato, con cui non si metta in intima comunione, non vi è frammento antico che non faccia agire sul suo spirito con tutta la gravità della sua muta e concisa eloquenza. Egli ritorna da questo viaggio, come Goethe da Roma, rifatto e ritemprato per le opere immortali: sente ora per la prima volta, lucidamente, che per rendersi padroni dell’avvenire, bisogna sprofondarsi nel passato; sente di più, sente che solo dal passato glorioso egli potrà spremere il farmaco efficace per la salute delle generazioni presenti. La grandezza di Confucio, come quella di altri sommi, s’inizia in una muta e grande concentrazione interiore. Egli diverrà presto l’apostolo di questo suo ideale: è di questa epoca, secondo la leggenda d’invenzione taoista, il suo primo incontro con Lao Tsŭ 13. Ma già la fama della virtù del Maestro era corsa e nel 501 a. C. Ting Kung, succeduto un anno prima nel Reame di Lu, ormai in piena anarchia, al fratello Chao Kung, morto in esilio, chiama Confucio e gli affida il governo della città di Chung Tu. Ora gli è porta finalmente occasione di sperimentare, se le sue teorie vanno d’accordo con la realtà: sembra di sì perchè in breve tempo opera prodigi: le strade si mondano di ladri; regolati sono i rapporti tra uomo e donna; mitigate le tasse; reso più dignitoso il consorzio; addolcito il trattamento del popolo; abolito il soverchio lusso dei funerali. Egli si fa notare in tal modo che Ting Kung, lo crea Ministro dei Lavori pubblici e della Giustizia. Egli ha ormai breve spazio per applicare la sua dottrina che aspira ad arrivare allo Stato perfetto mediante il rinnovamento etico dell’uomo; ciò che non è perfetto non dura. Per quanto la Realpolitik sia, dopo tutto, il suo scopo, vede in questa meno che una parvenza se non si appoggia sopra una solida base spirituale, materiata d’amore e di giustizia.

Intanto lo Stato di Lu, salito a tale floridezza di governo, per merito del Nostro, aveva già destato l’invidia del vicino Reame di Ch’i, il cui Principe dopo averle tentate di tutte, ricorre, per mettere la confusione in Lu, ad un fine stratagemma15: manda alla corte di Ting Kung un’ottantina delle sue più belle cortigiane e un centinaio dei suoi più floridi cavalli. Donne e bestie, combinate insieme, non mancano di produrre l’effetto desiderato. Confucio, già cinquantaquattrenne, lascia, pieno di indignazione, la Corte con una frase, che i discepoli, dopo, raccolsero in questi Dialoghi: «Ahimè! Io non ho visto ancora uno che ami più la verità di un bel viso!».
Vengono ora tredici anni di dure peregrinazioni, attraverso gli Stati Ts’ao, Wei, Sung, Cheng, Ch’en e altri, in compagnia dei suoi discepoli; comincia così la «via crucis» ovvero «via lucis» di Confucio. Invano cerca un Principe di buona volontà che capisca la portata dei suoi ammaestramenti, i quali si prefiggono di rinnovare il mondo, risuscitando il passato; i più lo accolgono con freddezza17 e non sanno che farsi di questo utopista errabondo, spinto, secondo loro, da un’ansia risibile d’impiego, tale da farlo cadere malato se, trascorsi tre mesi dalla carica toltagli, non ne trovi presto un’altra. Muore nel 479 a. C. a 73 anni, stanco, deluso, disperato. Le sue ultime parole furono: «La Fenice non arriva; il fiume non gitta il disegno! è finita per me!».
Egli ci appare in quel periodo di disordine, di anarchia, di dissolvimento, come l’erede legittimo di una grande civiltà defunta ch’egli medita ancora di imporre al suo popolo: il suo «ritorno ideale» non è ripiegamento ma volontà conscia di resurrezione. Questa magnifica attitudine, questo proposito gigantesco che, per le circostanze avverse in cui si mostra, sembra avere del titanico e del chimerico, è la base della grandezza individuale di Confucio, il fulcro della sua gloria nei secoli. I mezzi stessi ch’egli sceglie per realizzare il suo piano, appaiono di una esiguità così voluta che ci sorprende.

Era Egli nel giusto? I secoli par che abbiano dato ragione a Confucio: dopo la sua parola, la Cina non è stata più colpita da disastri paragonabili a quelli che la funestarono durante gli ultimi anni degli Chou; sì che si potrebbe dire del Maestro come in fondo a questi Dialoghi è detto di Wu Wang: «Esso ricondusse alla vita i Reami defunti; ridette la posterità alle interrotte generazioni; trasse alla luce i ritirati in solitudine e tutti i popoli dell’Impero si volsero a lui con l’anima!».  

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