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lunedì 11 dicembre 2023
IL GOVERNO MILLEI
Guillermo Francos, sarà il Ministro dell'Interno, ha un passato in politica ma ha poi lavorato molto nel privato. Fino a ricoprire l'incarico di rappresentante dell'Argentina presso la Banca Interamericana, da cui si è dimesso l'agosto scorso per unirsi alla squadra di Milei.
Luis Caputo, sarà il ministro dell'economia, laureato in economia, di formazione cattolica ha collaborato con importanti banche d'affari, nel 2015 ha fatto parte del governo Macrì ricoprendo un alto incarico presso il Ministero delle Finanze. Poi da gennaio 2017 ha assunto la carica di monistro delle finanze. Dal 2018 è ritornato ad incarichi operativi per la Banca centrale Argentina, con alterni risultati nel caos valutario del paese, per cui nel settembre 2018 si è dimesso ritornando nel privato. Milei lo ha imbarcato, nonostante tempo prima lo avesse criticato per sprechi al tempo dell'incarico alla banca centrale.
Patricia Bullrich, già Ministro per la sicurezza nel 2015 nel governo Macrì, discendente di una famiglia storica in Argentina, lei ormai settantenne è in politica da molto tempo e capeggia un piccolo partito "Proposta Repubblicana", che ha deciso di dare il proprio appoggio a Millei nel secondo turno.
Guillermo Ferraro, guiderà il nuovo ministero delle infrastrutture. Ha diretto per tredici anni la filiale argentina della Kpgm una importante multinazionale di revisione.
Completano la squadra di governo:
Marino Cuneo Libarona, ha 62 anni ed è un avvocato penalista. Il secondo “mega ministero” sarà quello chiamato Capitale Umano e sarà gestito da Sandra Pettovello. Un ministero che imporra una svolta aziendale all’istruzione, allo sviluppo sociale e al lavoro. Pettovello è una delle anime più forti del partito di Milei nonché grande sostenitrice della privatizzazione della scuola pubblica. Proprio per gestire la parte riguardante la formazione è stata nominata “segretaria” Maria Eleonora Urrutia, colei che in un recente articolo ha scritto e sostenuto che durante la dittatura civico-militare “non si sono commessi crimini di lesa umanità perché non è stata attaccata la popolazione civile”.
domenica 10 dicembre 2023
2024 L'ANNO ELETTORALE NON SOLO UE E USA - GENNAIO/FEBBRAIO
TAIWAN 13 gennaio 2024
La corsa alle presidenziali è cominciata nel 2022, quando l’attuale Presidente in carica Tsai Ing-wen ha rassegnato le dimissioni dalla leadership del DPP, il partito democratico progressista, a seguito degli scarsi risultati ottenuti nelle elezioni locali del paese. A guidare il nuovo partito democratico c’è ora Lai Ching-te, considerato più radicale nella sua posizione contro Pechino.C’è poi Hou Yu-ih, politico molto apprezzato dall’opinione pubblica taiwanese, che già nel novembre 2022 aveva ottenuto la riconferma al ruolo di sindaco di Nuova Taipei. Poi una grande sorpresa nel corso degli ultimi mesi, Terry Gou, fondatore di Foxconn, il più grande produttore al mondo di iPhone, ha annunciato la sua seconda campagna presidenziale a Taiwan dopo quella del 2012. Il miliardario settantenne ha dato il via alla sua campagna elettorale nel mese di aprile, cercando di improntare la sua politica sul rafforzamento dei legami con la Cina. Secondo Terry Gou un’eventuale vittoria del DPP porterebbe Taiwan ad un conflitto diretto con Pechino, dichiarando che le elezioni rappresentano una scelta tra la guerra e la pace. In questo scenario intricato, gli elettori taiwanesi non si limiteranno a scegliere il loro presidente il prossimo gennaio, ma contribuiranno a stabilire la rotta delle relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina per gli anni a venire.
EL SALVADOR 4 febbraio 2024
Nayib Bukele, presidente di El Salvador e promotore della legge che riconosce Bitcoin come moneta legale nel Paese, si è dimesso dalla carica per dedicarsi alla campagna elettorale. Il 1° Dicembre, Bukele si è dimesso dalla carica di Presidente di El Salvador in seguito all'approvazione dell'Assemblea Legislativa del Paese, che gli ha permesso di prendere un congedo per concentrarsi sulla campagna elettorale per la rielezione del 2024. Gli è succeduta la Presidente ad interim Claudia Rodríguez de Guevara, che dovrebbe rimanere in carica fino al Giugno 2024. Le prossime elezioni generali si terranno appunto nel Febbraio 2024.Nel Settembre del 2021 ha chiesto al governo salvadoregno di adottare Bitcoin come moneta legale e ha spinto per la creazione di una "Bitcoin City" alimentata dal vulcano Conchagua e proggettata dall'architetto Fernando Romero. Sarà proprio l’energia geotermica del vulcano ad alimentare completamente la città. Naturalmente Nayib Bukele spera di fare il bis. Inutile dire che in tutto il mondo si sono alzate le sopracciglia quando Bukele ha annunciato il passaggio del Paese a Bitcoin.
INDONESIA 14 febbraio 2024
Entra nel vivo la corsa per le elezioni presidenziali in Indonesia. La Commissione elettorale indonesiana ha annunciato i tre candidati a succedere all'attuale presidente Joko Widodo alla guida della terza democrazia più grande del mondo, nelle elezioni presidenziali del febbraio 2024, stabilendo che la campagna elettorale si è aperta il 2 8 novembre. Sono oltre 205 milioni i cittadini chiamati alle urne il 14 febbraio prossimo per eleggere il presidente nel paese a maggioranza islamica più popoloso al mondo (273 milioni di abitanti). Il Partito Democratico Indonesiano di Lotta (PDI-P) dell'attuale presidente Joko Widodo ha scelto Pranowo come candidato e il Ministro della Sicurezza, Mahfud, come suo vice. Ora in attesa delle nuove elezioni, il principio "unità nella diversità", sembra tentennare. A tal fine, un menzione speciale è stata dedicata alla crisi in corso nella regione della Papua indonesiana, dove il conflitto tra i gruppi ribelli e le forze di sicurezza in alcune province crea disagio e sofferenza tra la popolazione civile.
sabato 9 maggio 2020
IL TEMPO DEL DRAGONE
Estratto su un paio di situazioni che mettono in evidenza l'identità culturale del popolo Cinese:
1-
IL PRIMO IMPERATORE E LE SUE GRANDI OPERE
A
causa della grande siccità che durante l’inverno aveva colpito
la provincia
dello Shanxii e
tutto il nord della Cina, nel Marzo del 1974 i contadini dei villaggi
intorno al Monte Li si misero a cercare l’acqua scavando
pozzi nella campagna.
I
contadini erano soliti trovare cocci di terracotta che raccoglievano
e riutilizzavano. Ma un giorno i cocci che vennero alla luce
erano molto diversi da quelli che i contadini erano soliti trovare:
avevano delle sembianze quasi umane.
I
contadini li raccolsero e li portarono al villaggio. Gli anziani
erano molto superstiziosi e pensarono che l’aver portato via
quei cocci dal terreno potesse in qualche modo fare infuriare gli
spiriti: per giorni gli abitanti del villaggio ritornarono sul luogo
del ritrovamento a pregare ed accendere incensi per placare l’ira
degli dei. Tra essi però vi era un contadino che, come spesso
accade, vide “un pochino più in là degli altri”. Yang
Zhifa,
questo il suo nome secondo antichi libri, decise di avvertire le
autorità cinesi del ritrovamento. Sul posto venne mandata un’equipe
di esperti: dopo più di 2000 anni l’esercito di terracotta
rivedeva finalmente la luce. Da allora gli scavi proseguirono
lentamente e con molta prudenza: ad oggi sono state riportate alla
luce circa 6000 statue che sono diventate velocemente la seconda
più famosa attrazione del Regno di Mezzo dopo la Grande Muraglia
Cinese. Si racconta che i contadini non ricevettero mai un compenso
per la scoperta. Tutti tranne l’astuto Yang Zhifa che ottenne un
premio equivalente al suo stipendio di un anno e da allora la sua
vita si fece agiata.
Da
questo ritrovamento esplose la curiosità, anche al di fuori della
Cina, per chi aveva voluto e concepito tutto ciò e cioè:
Qin Shi Huang
La sua sepoltura rimane tutt’oggi sotto un tumulo di terra alto 50 metri e il contenuto del suo mausoleo resta ancora un mistero. Le antiche scritture dello storico Sima Qian narrano che la costruzione dell’immenso palazzo e dell’esercito che lo difende furono realizzati con il lavoro coatto di più di 700.000 uomini e la realizzazione richiese più di 40 anni. Qin Shi Huang era un leggendario e controverso sovrano. L’uomo che, durante il 3° secolo A.C, seppe unificare sotto il suo regno un immenso territorio creando di fatto la Cina. Ma non si limitò a far costruire la sua tomba mausoleo. Avviò diversi grandi progetti di costruzione, tra cui: un sistema di trasporti esteso oltre 4.000 miglia che comprendeva città, strade, vie d’acqua e canali. Diede inizio anche all’immenso progetto di costruzione della Grande Muraglia, per difendere la Cina dalle invasioni dei popoli nomadi del Nord. La Grande Muraglia è oggi ritenuta una delle più grandiose costruzioni militari della storia.
Verso
la fine del suo regno, fece salpare diverse navi, alla ricerca
dell’elisir dell’immortalità per garantirsi vita eterna. Il
regno di Qin divenne, per quell’epoca, il più esteso al mondo; si
dice che il termine Cina derivi
daQin,
che si pronuncia Cin.
Quanto ha fatto Qin Shi Huang, ha meritato il plauso e l’approvazione
degli storici cinesi.
Tuttavia,
Qin Shi Huang fu anche un noto tiranno che imponendo leggi severe,
rese dura e miserabile la vita della gente, per cui Qin
Shi Huang divenne
sinonimo di atrocità. Impose ai sudditi tasse pesanti e lavoro
obbligatorio. All’epoca della dinastia Qin c’erano circa 10
milioni di abitanti nel Paese e 2 milioni vennero chiamati a lavorare
ai suoi progetti di costruzione. Estese le dure punizioni inflitte
per legge ai carcerati anche ai loro parenti, per via delle
cosiddette ’responsabilità collettive’”. Inoltre, il suo
regime cercò di controllare il popolo e di sopprimere la libertà di
pensiero. Ordinò che i preziosi testi classici fossero dati alle
fiamme e che migliaia di studiosi venissero uccisi, quando riteneva
che le sue politiche fossero messe in discussione e criticate.
«Io
ho apportato l'ordine alla folla degli esseri e sottomesso alla prova
gli atti e le realtà: ogni cosa ha il nome che le conviene. Io ho
distrutto nell'Impero i libri inutili. Io ho favorito le scienze
occulte, affinché si cercasse per me, nel paese, la droga
d'immortalità.»
Secondo
la leggenda, i suoi dottori avevano confezionato delle pillole che
avrebbero dovuto renderlo finalmente immortale ma ironicamente queste
contenevano mercurio e
lo avvelenarono.
Ad
oggi, gli archeologi cinesi non hanno ancora violato la tomba di Qin
Shi Huang.
Giace
lì indisturbato da più di 2000 anni nella sua tomba, mai esplorata.
Nella
Cina contemporanea, la
storiografia cominciò a rivalutare la figura del primo imperatore.
Lo definiva "uno dei grandi eroi della storia cinese". Fino
all'apoteosi, dell'affermazione attribuita a Mao Zedong «Egli
seppellì vivi 460 studiosi; noi ne abbiamo sepolti vivi
quarantaseimila... Voi [intellettuali] ci accusate di essere dei Qin
Shi Huang. Vi sbagliate. Noi abbiamo sorpassato Qin Shi Huang di
cento volte».
2
– CONFUCIO (K’ung
Fu Tsŭ - Confucius)
Confucio
rappresenta uno dei più vasti e durevoli fenomeni della coscienza
umana; è la viva incarnazione storica dei più profondi istinti di
tutta una razza. Poichè
quest’uomo il quale ha per tanti secoli improntato del suo pensiero
tutto il mondo estremo-orientale, cioè un terzo dell’umanità
vivente, ci appare prima di tutto come l’arbitro sublime che fra
due età discordi, tra il passato glorioso che si dissolve e l’oscuro
avvenire che si dischiude. Negli ultimi anni dei Chou, ove l’anarchia
finiva di liquidare una civiltà durata 1500 anni, Egli si alza solo,
sul disordine dei tempi, sul polverio della grande rovina e, mentre
la società, ormai in preda allo scompiglio, ci viene innanzi ricco
di passato, tetragono di fede, immacolato di cuore. Molto si è
discusso da qual parte i Cinesi siano immigrati, in età
lontanissima, nel territorio che anche oggi posseggono. prendendo
come punto di partenza la Birmania d’oggi, di ricostruire il
cammino per cui i Cinesi, risalendo dal Sud verso il Nord, sarebbero
arrivati, in tappe lente, ma con sicura penetrazione, fino nel cuore
della Cina odierna, ove di nomadi divenuti stazionari, adottando una
civiltà propria, si sarebbero sùbito distinti dai loro consanguinei
indo-cinesi. Avanti di raccogliersi in gruppi, i primi Cinesi
intessevano le loro dimore su gli alberi più robusti, scavavano a
mo’ di trogloditi, le loro abitazioni nelle pendici dei colli, come
anche oggi se ne vedono nello Shan Hsi, per sottrarsi alla minaccia
delle belve e delle alluvioni che spesso travagliavano quelle pianure
sterminate. Risalendo fino a quel loro stato lontanissimo, noi li
intuiamo vegetariani da prima, carnivori più tardi, e li vediamo
abbandonare progressivamente i disagi di un inutile vagare, per darsi
sempre più alla coltivazione del terreno e al mantenimento degli
animali domestici: siamo già fin d’allora in cospetto di un popolo
agricolo in cui la vita della famiglia si svolge e permane sopra una
base di schietta concezione comunista. Un carattere che rimarrà fra
i più peculiari della stirpe, cioè: l’attitudine alla
collaborazione reciproca. La supremazia di un capo sulla massa;
l’autorità paterna, sindacante l’andamento della famiglia, è di
già assai accentuata fin d’allora. La vita a base patriarcale, ma
tuttavia pervasa da un sano senso di collettivismo, sbocca di
necessità nel concetto del patriarcato sociale: ossia di una società
ormai costituita che per difendersi nella sua più alta forma
raggiunta, ha bisogno di un duce: allora come il Popolo lega quella
sua eredità al Predestinato, al Figlio del Cielo (T’ien Tsŭ),
l’Imperatore, a sua volta, perchè questo legato non gli sfugga,
investe, in ogni parte del territorio, persone capaci di aiutarlo ad
esercitare e a conservare il suo mandato divino. Le prime basi per un
regime feudale sono così tracciate.
Da
noi l’individuo è tutto: indaga, scopre e fonda; in Cina
l’individuo è subordinato all’insieme, in quanto che doveri ben
precisi gli incombono, prescritti da quel Tutto di cui egli deve
sentirsi una parte. Anche la religione non si svolse separata
dall’idea dello Stato. L’Imperatore è anche il Pontefice; i suoi
funzionari politici sono anche i suoi sacerdoti.
Questi
tre nomi Yao, Shun e Yu, che tutti i letterati cinesi hanno avuto
sempre in cuore, all’ultimo dei quali si ricollega, per via
ereditaria, la prima Dinastia storica dei Hsia (1989-1559),
impersonano l’età dell’oro della vecchia Cina. Yao, è il grande
osservatore dei fenomeni naturali; il redattore del calendario; il
demarcatore delle quattro stagioni. Tutto ciò per aiutare le
occupazioni agricole del popolo le quali devono svolgersi all’unisono
della volontà cosmica. Shun, è il grande canalizzatore della
terribile alluvione del 2297 a. C. Nel 2278 ha già asciutto il
territorio; il suo governo è già governo feudatario: divide
l’Impero in nove e poi in dodici province. Egli sale per forza di
virtù al potere supremo; il testo dice che era «wei chien chih
jen»: «uomo di bassa estrazione nei natali». Yü, aiuta a
canalizzare; apre le vie per i monti e per le foreste; stabilisce
l’esame trimestrale dei funzionari; il suo governo è perfetto. Le
loro gesta, sono descritte a sbalzi efficaci nello Shu Ching o Libro
degli Annali che Confucio, accanto allo Shi Ching, Libro dei Carmi;
al Yi Ching, Libro delle Trasformazioni; allo Ch’un Ch’iu,
Primavera e Autunno (Annali dello Stato di Lu) e al Li Chi, giunto
alla sua definitiva redazione più tardi, compilò, negli ultimi anni
della sua vita, per uso dei discepoli. Queste cinque opere son
chiamate dai Cinesi: «WU CHING» «I cinque libri canonici». Cioè
la base della loro cultura, multi millenaria.
Molte
dinastie, si susseguono, prima di Confucio. Ma sempre, la regola era
in alto l’Imperatore e i Principi, in basso il Popolo. l’Imperatore
e i Principi hanno il monopolio dell’intelligenza, il Popolo ha
quello dell’obbedienza: ogni individuo è considerato come un
piccolo dente che nella gran rota dell’organismo statale ha il suo
piccolo vano ove ingranare: l’obbligo è la molla prima di ogni
azione individuale. Ma errerebbe chi credesse che tra il basso e
l’alto non ci fosse armonia: il Popolo ha investito il
predestinato, il Predestinato veglia e regola, per i suoi attributi
semidivini, il buon andamento del Popolo: questi, dalla sua fatica
quotidiana, intuisce che la fatica dell’Imperatore, nel suo
atteggiamento immobile, supera, per complessità e profondità, la
sua. Nel suo concetto l’Imperatore è il vero intermediario tra il
Cielo e la Terra; perciò è anche Pontefice, e i suoi funzionari
come altrettante propaggini della sua duplice potenza. Il Figlio del
Cielo ha il suo culto che s’indirizza prima al Cielo e poi ai Geni
terrestri: il Popolo ha il culto dei Lari e degli Antenati. Così
l’idea religiosa si trova commista all’idea di Stato. Si
comprende subito dove si trovi il tallone di Achille per uno Stato
così fatto: se chi è a capo della federazione non è una forte
personalità, che tenga desto nei Principi feudatari il sentimento
della propria supremazia, i legami che tengono unito l’insieme si
andranno man mano allentando fino alla disgregazione. Così difatti
avvenne. Ai tempi di Confucio le cose erano già arrivate a tal punto
che più oltre non potevano andare: non solo il Principe si ribella
all’Imperatore, ma pure il servo al Principe.
Quando
nasce Confucio, il caos dell’anarchia ondeggia per tutto:
spettacolo imponente e miserando! Una grande civiltà durata 1500
anni stava naufragando lentamente per sempre. Confucio, così detto
perchè i primi gesuiti latinizzarono il nome cinese K’ung Fu Tsŭ
in Confucius, era il rampollo di una vecchia famiglia che vantava
origini regali, capaci di risalire fino alla seconda Dinastia Yin,
nato dal già settantenne K’ung Shu Liang Ho, sottoprefetto in
Tsou, nel reame di Lu (Shan Tung d’oggi) il ventiduesimo anno del
Duca Hsiang (551 a. C.) e da una giovinetta Cheng Tsai, della
famiglia Wen. Egli nacque con una protuberanza a sommo della testa,
perciò ebbe il nome di Ch’iu, «collicello». Una gravità
precoce, una inclinazione pronunciata per tutte le cose appartenenti
al rituale, lo distinguono fin da piccolo; il suo passatempo più
gradito era quello di giuocare con i piccoli vasi usati nelle
cerimonie per le offerte. A 19 anni sposa Ch’i Kuan Shi, dopo
essere stato per due anni all’ufficio di controllo sulla vendita
del grano: quattro anni più tardi eserciterà la stessa funzione sui
granai pubblici; poco dopo diviene ispettore generale col mandato di
esercitare anche la giustizia per le campagne. Nel 528 gli muore la
madre (il padre l’aveva già perso a tre anni) ed Egli si dà tutto
allo studio per riempire il periodo obbligatorio di tre anni di
ritiro dagli affari pubblici, imposto per legge, nel lutto. La sua
visita a Lo, nel Ho Nan d’oggi, è del 518: questo viaggio deve
essere stato di capitale importanza per il suo svolgimento interiore.
Con una specie di sacro tremore, insegue egli nelle desolate rovine
le tracce dell’antica magnificenza; non vi è motivo del passato,
con cui non si metta in intima comunione, non vi è frammento antico
che non faccia agire sul suo spirito con tutta la gravità della sua
muta e concisa eloquenza. Egli ritorna da questo viaggio, come Goethe
da Roma, rifatto e ritemprato per le opere immortali: sente ora per
la prima volta, lucidamente, che per rendersi padroni dell’avvenire,
bisogna sprofondarsi nel passato; sente di più, sente che solo dal
passato glorioso egli potrà spremere il farmaco efficace per la
salute delle generazioni presenti. La grandezza di Confucio, come
quella di altri sommi, s’inizia in una muta e grande concentrazione
interiore. Egli diverrà presto l’apostolo di questo suo ideale: è
di questa epoca, secondo la leggenda d’invenzione taoista, il suo
primo incontro con Lao Tsŭ 13. Ma già la fama della virtù del
Maestro era corsa e nel 501 a. C. Ting Kung, succeduto un anno prima
nel Reame di Lu, ormai in piena anarchia, al fratello Chao Kung,
morto in esilio, chiama Confucio e gli affida il governo della città
di Chung Tu. Ora gli è porta finalmente occasione di sperimentare,
se le sue teorie vanno d’accordo con la realtà: sembra di sì
perchè in breve tempo opera prodigi: le strade si mondano di ladri;
regolati sono i rapporti tra uomo e donna; mitigate le tasse; reso
più dignitoso il consorzio; addolcito il trattamento del popolo;
abolito il soverchio lusso dei funerali. Egli si fa notare in tal
modo che Ting Kung, lo crea Ministro dei Lavori pubblici e della
Giustizia. Egli ha ormai breve spazio per applicare la sua dottrina
che aspira ad arrivare allo Stato perfetto mediante il rinnovamento
etico dell’uomo; ciò che non è perfetto non dura. Per quanto la
Realpolitik sia, dopo tutto, il suo scopo, vede in questa meno che
una parvenza se non si appoggia sopra una solida base spirituale,
materiata d’amore e di giustizia.
Intanto
lo Stato di Lu, salito a tale floridezza di governo, per merito del
Nostro, aveva già destato l’invidia del vicino Reame di Ch’i, il
cui Principe dopo averle tentate di tutte, ricorre, per mettere la
confusione in Lu, ad un fine stratagemma15: manda alla corte di Ting
Kung un’ottantina delle sue più belle cortigiane e un centinaio
dei suoi più floridi cavalli. Donne e bestie, combinate insieme, non
mancano di produrre l’effetto desiderato. Confucio, già
cinquantaquattrenne, lascia, pieno di indignazione, la Corte con una
frase, che i discepoli, dopo, raccolsero in questi Dialoghi: «Ahimè!
Io non ho visto ancora uno che ami più la verità di un bel viso!».
Vengono
ora tredici anni di dure peregrinazioni, attraverso gli Stati Ts’ao,
Wei, Sung, Cheng, Ch’en e altri, in compagnia dei suoi discepoli;
comincia così la «via crucis» ovvero «via lucis» di Confucio.
Invano cerca un Principe di buona volontà che capisca la portata dei
suoi ammaestramenti, i quali si prefiggono di rinnovare il mondo,
risuscitando il passato; i più lo accolgono con freddezza17 e non
sanno che farsi di questo utopista errabondo, spinto, secondo loro,
da un’ansia risibile d’impiego, tale da farlo cadere malato se,
trascorsi tre mesi dalla carica toltagli, non ne trovi presto
un’altra. Muore nel 479 a. C. a 73 anni, stanco, deluso, disperato.
Le sue ultime parole furono: «La Fenice non arriva; il fiume non
gitta il disegno! è finita per me!».
Egli
ci appare in quel periodo di disordine, di anarchia, di
dissolvimento, come l’erede legittimo di una grande civiltà
defunta ch’egli medita ancora di imporre al suo popolo: il suo
«ritorno ideale» non è ripiegamento ma volontà conscia di
resurrezione. Questa magnifica attitudine, questo proposito
gigantesco che, per le circostanze avverse in cui si mostra, sembra
avere del titanico e del chimerico, è la base della grandezza
individuale di Confucio, il fulcro della sua gloria nei secoli. I
mezzi stessi ch’egli sceglie per realizzare il suo piano, appaiono
di una esiguità così voluta che ci sorprende.
Era
Egli nel giusto? I secoli par che abbiano dato ragione a Confucio:
dopo la sua parola, la Cina non è stata più colpita da disastri
paragonabili a quelli che la funestarono durante gli ultimi anni
degli Chou; sì che si potrebbe dire del Maestro come in fondo a
questi Dialoghi è detto di Wu Wang: «Esso ricondusse alla vita i
Reami defunti; ridette la posterità alle interrotte generazioni;
trasse alla luce i ritirati in solitudine e tutti i popoli
dell’Impero si volsero a lui con l’anima!».
mercoledì 29 aprile 2020
OCCASIONE PER RILANCIARE IL SISTEMA ITALIA
Corriere della Sera 29 Apr 2020 di Aldo Cazzullo
«È l’occasione per rilanciare tutto il sistema Italia». Vittorio Colao rilascia al Corriere la sua prima intervista: «Ripartiremo a ondate, pronti a chiudere piccole aree se il male riparte. Regole diverse a seconda delle Regioni. Così funzionerà l’app, salvando la privacy».
Vittorio Colao, gli italiani si aspettavano dalla fase 2 più libertà. Personali ed economiche. Che cosa risponde?
«Dal 4 maggio rimettiamo al lavoro quattro milioni e mezzo di italiani, tra costruzioni, manifattura, servizi collegati, ovviamente nel rispetto dei protocolli. Molti sono già partiti lunedì, anche se questo nella comunicazione si è un po’ perso. Ne rimangono due milioni e 700 mila, più la pubblica amministrazione. È una base per poter fare una riapertura progressiva e completa. Sarà un test importante. Dipenderà dai buoni comportamenti. Un’apertura a ondate permette di verificare la robustezza del sistema».
C’è anche chi dice invece che stiamo riaprendo troppo presto. In Germania i casi aumentano, la Francia rinvia l’apertura delle scuole. L’italia ripartirà in sicurezza?
«Abbiamo raccomandato tre precondizioni che vanno monitorate. La prima: il controllo giornaliero dell’andamento dell’epidemia. La seconda: la tenuta del sistema ospedaliero, non solo le terapie intensive, anche i posti-letto Covid. La terza: la disponibilità di mascherine, gel e altri materiali di protezione. A queste condizioni si può riaprire».
E se l’epidemia riparte?
«L’approccio non dovrà essere nazionale e neppure regionale, ma microgeografico: occorre intervenire il più in fretta possibile, nella zona più piccola possibile. Abbiamo indicato al governo un processo. L’importante è che le misure siano tempestive; nella speranza che non siano necessarie».
Appunto: perché trattare allo stesso modo l’umbria, che ha meno di dieci casi al giorno, e la Lombardia, che ne ha quasi mille? Non è meglio differenziare le regole a seconda delle Regioni?
«Io ho mezza famiglia a Catanzaro e mezza a Brescia. I numeri dell’epidemia sono molto distanti; nel lungo termine non li si può gestire allo stesso modo. Dovremo rispondere diversamente, per non penalizzare le zone che hanno
meno casi. L’importante è che l’italia si doti di un sistema per condividere le informazioni. La trasparenza sarà fondamentale. Se tanti lombardi e piemontesi vanno in Liguria, ogni Regione guarderà i suoi numeri, ma il ministero della Sanità dovrà guardare alle interrelazioni, per capire se il movimento crea focolai. Lo stesso vale per il corridoio di trasporto tra Lazio e Toscana. I numeri ci diranno quando potremo proseguire con le riaperture, minimizzando il danno economico e massimizzando la sicurezza».
Molte aziende sono aperte. Ma non ci sono regole chiare sui test.
«Gli italiani devono abituarsi a convivere con il problema. Molte imprese si stanno attrezzando per inserire i test nelle loro procedure di sicurezza interne; il Comitato tecnicoscientifico individuerà quello più affidabile. A livello individuale abbiamo l’app, a livello di grandi numeri lo screening».
L’app servirà davvero?
«Potrà servire se arriva in fretta, e se la scarica la grande maggioranza degli italiani. È importante lanciarla entro la fine di maggio; se quest’estate l’avremo tutti o quasi, bene; altrimenti servirà a poco».
Se la sente di garantire che non sarà una violazione della privacy da parte dello Stato?
«Non è così. Non è stato scelto il sistema centralizzato, che manteneva l’identità di tutti i contatti. E’ stata scelta l’altra soluzione, quella Apple-google. I contatti stanno solo sui telefonini delle persone. Quando scopro di essere contagiato, sono io che metto dentro un codice, che rilascia una serie di codici alle persone con cui sono entrato in contatto. Tutto avviene in modo anonimo: l’individuo viene informato dal sistema, ma il sistema non sa chi sono i due; la privacy dei due individui è mantenuta.
Nessuno conosce l’altro. Il sistema sanitario locale — se vorrà — potrà disegnare l’app in modo da contattare i cittadini, ma in trasparenza».
Pensa davvero che gli italiani la scaricheranno?
«Se gli verrà spiegato bene, lo faranno. Se vivessi in un piccolo paese e fossi contagiato, avviserei chi mi è stato vicino di stare attento. L’app lo fa in automatico e anonimamente: mi avviserebbe che sono stato in contatto con un contagiato, e devo chiamare il servizio sanitario. Non vedo perché gli italiani dovrebbero rinunciare a informazioni che non limitano ma rafforzano la loro libertà».
Come faranno i negozianti ad attendere il 18 maggio? E i bar e ristoranti a resistere fino a giugno?
«Le riaperture di negozi e bar, e tantomeno delle chiese, non sono di competenza del nostro Comitato; sono decise dal governo sulla base di input sanitari. Noi siamo advisor: ci è stato chiesto di dare consigli su come far ripartire costruzioni e manifattura. La riapertura progressiva ti fa capire meglio a quale velocità devi andare. È una malattia che non ha una mortalità altissima, ma può mettere in ginocchio il sistema sanitario; è un dovere morale evitarlo. Sento parlare di distanziamento sociale; dovremmo parlare di distanziamento fisico. La società deve essere più unita e coesa di prima. È il momento di collaborare, tutti: andando in ufficio in bicicletta, spalmando gli orari di ingresso, continuando con lo smartworking».
Si dice che siate troppi. State funzionando? E quanto costate?
«Troppi? La presidenza del Consiglio ha creato tre strutture: il commissario Covid che garantisce che arrivino mascherine e altro materiale; il Comitato tecnico-scientifico, che esiste in tutti i Paesi; e noi, che siamo chiamati ora a fare proposte per il rilancio, per il 2020 e il 2021. Noi del Comitato economico-sociale siamo tutti volontari. Nessuno guadagna nulla, come è giusto che sia».
Lei è qui per prendere il posto di Conte?
«Non ho nessuna intenzione di fare politica. Mi è stato chiesto di aiutare a gestire una fase complicata, con un gruppo di persone esperte di diverse materie».
Chi gliel’ha chiesto? Conte o Mattarella?
«Il presidente Conte. Stavo passeggiando in giardino, qui a Londra si può. Ho chiesto due ore per avvisare la General Atlantic, cui dedicavo metà del mio tempo, e le altre società cui collaboravo. Mi hanno risposto: of course, naturalmente puoi e devi fare qualcosa per il tuo Paese. Alla fine tornerò al mio lavoro. Molti manager l’hanno fatto, in molti Paesi; solo in Italia si pensa che vogliano fare politica. Sono state scritte anche altre inesattezze».
Quali?
«Non abbiamo mai proposto di chiudere in casa i sessantenni. L’hanno creduto in tanti, anche Fiorello. Abbiamo solo posto il tema dei muratori nei piccoli cantieri e dei lavoratori nelle manifatture minori».
Quali misure proporrà per il rilancio?
«Siamo all’inizio: abbiamo appena ascoltato il presidente della conferenza dei rettori, nei prossimi giorni sentiremo tutte le categorie. Siamo divisi in sei gruppi di lavoro, che coprono tutte le parti produttive e sociali: aziende, istruzione, turismo, cultura, famiglie, pubblica amministrazione… Abbiamo l’opportunità di fare in ognuno di questi campi cose che avrebbero richiesto molto più tempo. Mai lasciarsi sfuggire una crisi».
È l’occasione per ricostruire la macchina dello Stato?
«Non solo: è l’occasione per rilanciare tutto il sistema Italia. Il Paese ha imparato a usare le nuove tecnologie, i nuovi strumenti per comunicare. Dobbiamo ammodernare i modelli commerciali delle nostre imprese. Aumentare la partecipazione femminile al lavoro, sostenendo al contempo la natalità, aiutando le madri che lavorano».
Le scuole chiuse non aiutano.
«Abbiamo raccomandato congedi parentali retribuiti e bonus per baby-sitter; ovviamente occorrerà prendere misure strutturali. Dovremo massimizzare l’utilizzo dei beni culturali, artistici, ambientali. Riaprire corridoi turistici, appena possibile. Ed estendere le stagioni».
Si andrà in vacanza quest’estate?
«Spero di sì. Andremo più vicini, avremo un turismo più locale. Il nostro grado di libertà dipende da come ci comportiamo da qui a luglio. Sta a noi rispettare la distanza fisica e non vanificare gli sforzi fatti finora».
La sua città, Brescia, è tra le più colpite. Molte aziende chiuderanno al Nord? O l’economia ripartirà?
«Direi di sì, che ripartirà. Non è un sì senza condizioni. Bisogna aiutare le imprese sul fronte della liquidità. Ammodernarne le strutture produttive e distributive. Farle lavorare con meno gravami amministrativi, meno complicazioni: tutti lo dicono ma nessuno lo fa, perché è difficile farlo; ma il momento è adesso. Servirà un intervento dello Stato, spero temporaneo, senza sussidi a lungo termine: la Cassa depositi e prestiti può essere lo strumento giusto. Tra 12-18 mesi potremo aver superato la tempesta».
Quanti soldi servono, e dove?
«C’è un ministro dell’economia che decide dove mettere i soldi. Noi possiamo indicare le iniziative che danno il miglior ritorno».
Ci attende una recessione, o c’è il rischio di una depressione globale?
«Il rischio c’è. Dipende da due cose che nessuno conosce: la scoperta di una terapia e di un vaccino; e la governance mondiale. Serve un coordinamento internazionale. Se ognuno guarda il suo orticello e non coordina le proprie misure con gli altri le conseguenze saranno pesanti. L’europa è chiamata a dare risposte comuni su trasporto merci, circolazione delle persone, protocolli per la sicurezza. Se la Francia o la Germania decidono una cosa diversa dall’italia, una parte delle risorse si sposterà. Evitiamo di danneggiarci a vicenda».
Cosa pensa degli aiuti russi e cinesi? Filantropia? O geopolitica?
«È una domanda da fare al ministro degli Esteri. Dico solo questo: è importante che ci sia il dialogo. Dobbiamo mantenere una visione multilaterale. Ce l’ha insegnato il virus, che non guarda alle nostre divisioni».
Lei continua a lavorare da Londra?
«Sì. Se fossi tornato avrei dovuto fare due settimane di quarantena, avrei perso tempo. Dobbiamo tutti imparare a lavorare in modo diverso. Ho guidato una multinazionale come Vodafone via video, dall’india al Sudafrica. In certi casi gli spostamenti sono controproducenti. Abbiamo iniziato a lavorare la mattina di Pasqua e neanche ci conoscevamo; dopo dieci giorni abbiamo consegnato le prime raccomandazioni. Se ci fossimo visti di persona, probabilmente non ce l’avremmo fatta».
L’approccio non sarà nazionale o regionale ma microgeografico per intervenire in fretta nella zona più piccola possibile
Vittorio Colao, gli italiani si aspettavano dalla fase 2 più libertà. Personali ed economiche. Che cosa risponde?
«Dal 4 maggio rimettiamo al lavoro quattro milioni e mezzo di italiani, tra costruzioni, manifattura, servizi collegati, ovviamente nel rispetto dei protocolli. Molti sono già partiti lunedì, anche se questo nella comunicazione si è un po’ perso. Ne rimangono due milioni e 700 mila, più la pubblica amministrazione. È una base per poter fare una riapertura progressiva e completa. Sarà un test importante. Dipenderà dai buoni comportamenti. Un’apertura a ondate permette di verificare la robustezza del sistema».
C’è anche chi dice invece che stiamo riaprendo troppo presto. In Germania i casi aumentano, la Francia rinvia l’apertura delle scuole. L’italia ripartirà in sicurezza?
«Abbiamo raccomandato tre precondizioni che vanno monitorate. La prima: il controllo giornaliero dell’andamento dell’epidemia. La seconda: la tenuta del sistema ospedaliero, non solo le terapie intensive, anche i posti-letto Covid. La terza: la disponibilità di mascherine, gel e altri materiali di protezione. A queste condizioni si può riaprire».
E se l’epidemia riparte?
«L’approccio non dovrà essere nazionale e neppure regionale, ma microgeografico: occorre intervenire il più in fretta possibile, nella zona più piccola possibile. Abbiamo indicato al governo un processo. L’importante è che le misure siano tempestive; nella speranza che non siano necessarie».
Appunto: perché trattare allo stesso modo l’umbria, che ha meno di dieci casi al giorno, e la Lombardia, che ne ha quasi mille? Non è meglio differenziare le regole a seconda delle Regioni?
«Io ho mezza famiglia a Catanzaro e mezza a Brescia. I numeri dell’epidemia sono molto distanti; nel lungo termine non li si può gestire allo stesso modo. Dovremo rispondere diversamente, per non penalizzare le zone che hanno
meno casi. L’importante è che l’italia si doti di un sistema per condividere le informazioni. La trasparenza sarà fondamentale. Se tanti lombardi e piemontesi vanno in Liguria, ogni Regione guarderà i suoi numeri, ma il ministero della Sanità dovrà guardare alle interrelazioni, per capire se il movimento crea focolai. Lo stesso vale per il corridoio di trasporto tra Lazio e Toscana. I numeri ci diranno quando potremo proseguire con le riaperture, minimizzando il danno economico e massimizzando la sicurezza».
Molte aziende sono aperte. Ma non ci sono regole chiare sui test.
«Gli italiani devono abituarsi a convivere con il problema. Molte imprese si stanno attrezzando per inserire i test nelle loro procedure di sicurezza interne; il Comitato tecnicoscientifico individuerà quello più affidabile. A livello individuale abbiamo l’app, a livello di grandi numeri lo screening».
L’app servirà davvero?
«Potrà servire se arriva in fretta, e se la scarica la grande maggioranza degli italiani. È importante lanciarla entro la fine di maggio; se quest’estate l’avremo tutti o quasi, bene; altrimenti servirà a poco».
Se la sente di garantire che non sarà una violazione della privacy da parte dello Stato?
«Non è così. Non è stato scelto il sistema centralizzato, che manteneva l’identità di tutti i contatti. E’ stata scelta l’altra soluzione, quella Apple-google. I contatti stanno solo sui telefonini delle persone. Quando scopro di essere contagiato, sono io che metto dentro un codice, che rilascia una serie di codici alle persone con cui sono entrato in contatto. Tutto avviene in modo anonimo: l’individuo viene informato dal sistema, ma il sistema non sa chi sono i due; la privacy dei due individui è mantenuta.
Nessuno conosce l’altro. Il sistema sanitario locale — se vorrà — potrà disegnare l’app in modo da contattare i cittadini, ma in trasparenza».
Pensa davvero che gli italiani la scaricheranno?
«Se gli verrà spiegato bene, lo faranno. Se vivessi in un piccolo paese e fossi contagiato, avviserei chi mi è stato vicino di stare attento. L’app lo fa in automatico e anonimamente: mi avviserebbe che sono stato in contatto con un contagiato, e devo chiamare il servizio sanitario. Non vedo perché gli italiani dovrebbero rinunciare a informazioni che non limitano ma rafforzano la loro libertà».
Come faranno i negozianti ad attendere il 18 maggio? E i bar e ristoranti a resistere fino a giugno?
«Le riaperture di negozi e bar, e tantomeno delle chiese, non sono di competenza del nostro Comitato; sono decise dal governo sulla base di input sanitari. Noi siamo advisor: ci è stato chiesto di dare consigli su come far ripartire costruzioni e manifattura. La riapertura progressiva ti fa capire meglio a quale velocità devi andare. È una malattia che non ha una mortalità altissima, ma può mettere in ginocchio il sistema sanitario; è un dovere morale evitarlo. Sento parlare di distanziamento sociale; dovremmo parlare di distanziamento fisico. La società deve essere più unita e coesa di prima. È il momento di collaborare, tutti: andando in ufficio in bicicletta, spalmando gli orari di ingresso, continuando con lo smartworking».
Si dice che siate troppi. State funzionando? E quanto costate?
«Troppi? La presidenza del Consiglio ha creato tre strutture: il commissario Covid che garantisce che arrivino mascherine e altro materiale; il Comitato tecnico-scientifico, che esiste in tutti i Paesi; e noi, che siamo chiamati ora a fare proposte per il rilancio, per il 2020 e il 2021. Noi del Comitato economico-sociale siamo tutti volontari. Nessuno guadagna nulla, come è giusto che sia».
Lei è qui per prendere il posto di Conte?
«Non ho nessuna intenzione di fare politica. Mi è stato chiesto di aiutare a gestire una fase complicata, con un gruppo di persone esperte di diverse materie».
Chi gliel’ha chiesto? Conte o Mattarella?
«Il presidente Conte. Stavo passeggiando in giardino, qui a Londra si può. Ho chiesto due ore per avvisare la General Atlantic, cui dedicavo metà del mio tempo, e le altre società cui collaboravo. Mi hanno risposto: of course, naturalmente puoi e devi fare qualcosa per il tuo Paese. Alla fine tornerò al mio lavoro. Molti manager l’hanno fatto, in molti Paesi; solo in Italia si pensa che vogliano fare politica. Sono state scritte anche altre inesattezze».
Quali?
«Non abbiamo mai proposto di chiudere in casa i sessantenni. L’hanno creduto in tanti, anche Fiorello. Abbiamo solo posto il tema dei muratori nei piccoli cantieri e dei lavoratori nelle manifatture minori».
Quali misure proporrà per il rilancio?
«Siamo all’inizio: abbiamo appena ascoltato il presidente della conferenza dei rettori, nei prossimi giorni sentiremo tutte le categorie. Siamo divisi in sei gruppi di lavoro, che coprono tutte le parti produttive e sociali: aziende, istruzione, turismo, cultura, famiglie, pubblica amministrazione… Abbiamo l’opportunità di fare in ognuno di questi campi cose che avrebbero richiesto molto più tempo. Mai lasciarsi sfuggire una crisi».
È l’occasione per ricostruire la macchina dello Stato?
«Non solo: è l’occasione per rilanciare tutto il sistema Italia. Il Paese ha imparato a usare le nuove tecnologie, i nuovi strumenti per comunicare. Dobbiamo ammodernare i modelli commerciali delle nostre imprese. Aumentare la partecipazione femminile al lavoro, sostenendo al contempo la natalità, aiutando le madri che lavorano».
Le scuole chiuse non aiutano.
«Abbiamo raccomandato congedi parentali retribuiti e bonus per baby-sitter; ovviamente occorrerà prendere misure strutturali. Dovremo massimizzare l’utilizzo dei beni culturali, artistici, ambientali. Riaprire corridoi turistici, appena possibile. Ed estendere le stagioni».
Si andrà in vacanza quest’estate?
«Spero di sì. Andremo più vicini, avremo un turismo più locale. Il nostro grado di libertà dipende da come ci comportiamo da qui a luglio. Sta a noi rispettare la distanza fisica e non vanificare gli sforzi fatti finora».
La sua città, Brescia, è tra le più colpite. Molte aziende chiuderanno al Nord? O l’economia ripartirà?
«Direi di sì, che ripartirà. Non è un sì senza condizioni. Bisogna aiutare le imprese sul fronte della liquidità. Ammodernarne le strutture produttive e distributive. Farle lavorare con meno gravami amministrativi, meno complicazioni: tutti lo dicono ma nessuno lo fa, perché è difficile farlo; ma il momento è adesso. Servirà un intervento dello Stato, spero temporaneo, senza sussidi a lungo termine: la Cassa depositi e prestiti può essere lo strumento giusto. Tra 12-18 mesi potremo aver superato la tempesta».
Quanti soldi servono, e dove?
«C’è un ministro dell’economia che decide dove mettere i soldi. Noi possiamo indicare le iniziative che danno il miglior ritorno».
Ci attende una recessione, o c’è il rischio di una depressione globale?
«Il rischio c’è. Dipende da due cose che nessuno conosce: la scoperta di una terapia e di un vaccino; e la governance mondiale. Serve un coordinamento internazionale. Se ognuno guarda il suo orticello e non coordina le proprie misure con gli altri le conseguenze saranno pesanti. L’europa è chiamata a dare risposte comuni su trasporto merci, circolazione delle persone, protocolli per la sicurezza. Se la Francia o la Germania decidono una cosa diversa dall’italia, una parte delle risorse si sposterà. Evitiamo di danneggiarci a vicenda».
Cosa pensa degli aiuti russi e cinesi? Filantropia? O geopolitica?
«È una domanda da fare al ministro degli Esteri. Dico solo questo: è importante che ci sia il dialogo. Dobbiamo mantenere una visione multilaterale. Ce l’ha insegnato il virus, che non guarda alle nostre divisioni».
Lei continua a lavorare da Londra?
«Sì. Se fossi tornato avrei dovuto fare due settimane di quarantena, avrei perso tempo. Dobbiamo tutti imparare a lavorare in modo diverso. Ho guidato una multinazionale come Vodafone via video, dall’india al Sudafrica. In certi casi gli spostamenti sono controproducenti. Abbiamo iniziato a lavorare la mattina di Pasqua e neanche ci conoscevamo; dopo dieci giorni abbiamo consegnato le prime raccomandazioni. Se ci fossimo visti di persona, probabilmente non ce l’avremmo fatta».
L’approccio non sarà nazionale o regionale ma microgeografico per intervenire in fretta nella zona più piccola possibile
venerdì 3 aprile 2020
L'AZIONE SOLIDALE PER L'EUROPA IN VISTA DELL'EUROGRUPPO DEL PROSSIMO 7 APRILE - PARTE SECONDA - LA LETTERA DI CONTE A URSULA VON DER LEYEN E ALTRO......IN ATTESA DEL D DAY
Ecco
la lettera con cui il presidente del Consiglio Giuseppe Conte
risponde all’intervento della presidente della Commissione europea
Ursula von der Leyen pubblicato ieri da Repubblica:
Cara
Ursula,
ho
apprezzato il sentimento di vicinanza e condivisione che ha ispirato
le parole con cui ieri, dalle pagine di questo giornale, ti sei
rivolta alla nostra comunità nazionale e, in particolare, al nostro
personale sanitario, che, con grande sacrificio e responsabilità, è
severamente impegnato nel fronteggiare questa emergenza. Le tue
parole sono la prova che la determinazione degli italiani ha scosso
le coscienze di tutti, travalicando i confini nazionali e ponendo la
riflessione oggi più urgente: cosa è disposta a fare l’Europa non
per l’Italia, ma per se stessa. In questi giorni ho ricordato
spesso come l’emergenza che stiamo vivendo richieda una risposta
straordinaria, poiché la natura e le caratteristiche della crisi in
corso sono tali da mettere a repentaglio l’esistenza stessa della
casa comune europea. Non abbiamo scelta, la sfida è questa: siamo
chiamati a compiere un salto di qualità che ci qualifichi come
"unione" da un punto di vista politico e sociale, prima
ancora che economico. L’Italia sa che la ricetta per reggere questa
sfida epocale non può essere affidata ai soli manuali di economia.
Deve essere la solidarietà l’inchiostro con cui scrivere questa
pagina di storia: la storia di Paesi che stanno contraendo debiti per
difendersi da un male di cui non hanno colpa, pur di proteggere le
proprie comunità, salvaguardando le vite dei suoi membri,
soprattutto dei più fragili, e pur di preservare il proprio tessuto
economico-sociale.
La
solidarietà europea, come hai tu stessa ricordato, nei primi giorni
di questa crisi non si è avvertita e ora non c’è altro tempo da
perdere. Accogliamo con favore la proposta della Commissione europea
di sostenere, attraverso il piano "Sure" da 100 miliardi di
euro, i costi che i governi nazionali affronteranno per finanziare il
reddito di quanti si trovano temporaneamente senza lavoro in questa
fase difficile. È una iniziativa positiva, poiché consentirebbe di
emettere obbligazioni europee per un importo massimo di 100 miliardi
di euro, a fronte di garanzie statali intorno ai 25 miliardi di euro.
Ma
le risorse necessarie per sostenere i nostri sistemi sanitari, per
garantire liquidità in tempi brevi a centinaia di migliaia di
piccole e medie imprese, per mettere in sicurezza occupazione e
redditi dei lavoratori autonomi, sono molte di più. E questo non
vale certo solo per l’Italia. Per questo occorre andare oltre.
Altri player internazionali, come gli Stati Uniti, stanno mettendo in
campo uno sforzo fiscale senza precedenti e non possiamo permetterci,
come italiani e come europei, di perdere non soltanto la sfida della
ricostruzione delle nostre economie, ma anche quella della
competizione globale.
Quando
si combatte una guerra, è obbligatorio sostenere tutti gli sforzi
necessari per vincere e dotarsi di tutti gli strumenti che servono
per avviare la ricostruzione. A questo proposito, nei giorni scorsi
ho lanciato la proposta di un’European Recovery and Reinvestment
Plan.
Si
tratta di un progetto coraggioso e ambizioso che richiede un supporto
finanziario condiviso e, pertanto, ha bisogno di strumenti innovativi
come gli European Recovery Bond: dei titoli di Stato europei che
siano utili a finanziare gli sforzi straordinari che l’Europa dovrà
mettere in campo per ricostruire il suo tessuto sociale ed economico.
Come ho già chiarito, questi titoli non sono in alcun modo volti a
condividere il debito che ognuno dei nostri Paesi ha ereditato dal
passato, e nemmeno a far sì che i cittadini di alcuni Paesi abbiano
a pagare anche un solo euro per il debito futuro di altri. Si tratta
- piuttosto - di sfruttare a pieno la vera "potenza di fuoco"
della famiglia europea, di cui tutti noi siamo parte, per dare vita a
un grande programma comune e condiviso di sostegno e di rilancio
della nostra economia, e per assicurare un futuro degno alle
famiglie, alle imprese, ai lavoratori, e a tutti i nostri figli.
Al
termine dell’ultimo Consiglio europeo dello scorso 26 marzo, ci
siamo dati due settimane di tempo per raccogliere questa sfida.
Purtroppo,
alcune anticipazioni dei lavori tecnici che ho potuto visionare non
sembrano affatto all’altezza del compito che la storia ci ha
assegnato.
Si
continua a insistere nel ricorso a strumenti come il Mes che appaiono
totalmente inadeguati rispetto agli scopi da perseguire, considerato
che siamo di fronte a uno shock epocale a carattere simmetrico, che
non dipende dai comportamenti di singoli Stati. È il momento di
mostrare più ambizione, più unità e più coraggio. Di fronte a una
tempesta come il Covid-19 che riguarda tutti, non serve un salvagente
per l’Italia: serve una scialuppa di salvataggio solida, europea,
che conduca i nostri Paesi uniti al riparo. Non chiediamo a nessuno
di remare per noi, perché abbiamo braccia forti. "Le decisioni
che prendiamo oggi verranno ricordate per anni. Daranno forma
all’Europa di domani", hai scritto ieri nel tuo intervento.
Sono d’accordo. Il 2020 sarà uno spartiacque nella storia della
Ue.
Ciascun
attore istituzionale sarà chiamato a rispondere, anche ai posteri,
delle proprie posizioni e del proprio operato. Solo se avremo
coraggio, se guarderemo davvero il futuro con gli occhi della
solidarietà e non col filtro degli egoismi, potremo ricordare il
2020 non come l’anno del fallimento del sogno europeo ma della sua
rinascita.
In
attesa di superare lo stallo su Coronabond e Mes, ieri la Commissione
europea ha lanciato ufficialmente il primo strumento anti-crisi. Si
tratta di Sure, (acronimo di Support to mitigate unemployment risks
in emergency), un fondo europeo contro la disoccupazione che
attraverso 25 miliardi di garanzie volontarie degli Stati permetterà
di finanziare le casse integrazioni nazionali o schemi simili di
protezione dei posti di lavoro. Sure funzionerà così: raccoglierà
risorse sui mercati emettendo bond con tripla A, quindi a tassi
bassissimi, che darà poi ai Paesi che ne hanno bisogno con scadenze
a lungo termine. «Con questo nuovo strumento di solidarietà
mobiliteremo 100 miliardi per mantenere le persone nei loro posti di
lavoro e sostenere le imprese» ha aggiunto la presidente della
Commissione Ursula von der Leyen.
Il
vice presidente della Commissione Europea, Valdis Dombrovskis,
parlando con la Repubblica, afferma che l’Unione Europea tiene
aperte tutte le opzioni, compresi gli eurobond. Ecco la sua
intervista:
Cosa
propone Bruxelles per una reazione immediata alla crisi?
«Serve
una risposta rapida e senza precedenti. Nelle ultime settimane
abbiamo sospeso il Patto di stabilità e il divieto di aiuti di Stato
alle imprese.
Inoltre
ci sono state le decisioni della Bce. Oggi portiamo un nuovo
pacchetto: l’obiettivo è di preservare quanto più possibile
imprese e occupazione. Più aziende salviamo, più posti di lavoro
manteniamo, più veloce sarà la ripresa economica.
Ecco
perché abbiamo proposto "Sure", uno strumento che avrà
fino a 100 miliardi da prestare ai governi nazionali a condizioni
vantaggiose per sostenere gli ammortizzatori sociali. Inoltre abbiamo
accordato massima flessibilità su come usare i fondi europei:
potranno essere impiegati senza co-finanziamento nazionale e
trasferiti tra le regioni di un Paese».
Come
raccoglierete i 100 miliardi di "Sure"?
«Chiediamo
ai governi di fornirci garanzie per 25 miliardi: a quel punto la
Commissione andrà sui mercati per raccogliere soldi che presteremo a
condizioni favorevoli ai paesi che li richiederanno. "Sure"
è interessante per i Paesi che hanno alti costi di finanziamento sui
mercati».Va bene, ma basterà?
«Stiamo
mettendo in campo diverse misure capaci di aiutare i paesi con un
alto costo di finanziamento, altre sono in discussione. L’Unione e
i governi sono determinati a fare il necessario per assicurare una
ripresa rapida».
I
governi sono spaccati sul Mes: alcuni chiedono di attivarlo senza
condizionalità, altri invece vogliono impegni su un futuro di
austerità. La Commissione cosa ne pensa?
«È
logico usare il Mes come prossima linea di difesa perché è già
capitalizzato e ha già capacità di prestito. Dobbiamo trovare un
compromesso pragmatico, una soluzione su misura per questa crisi che
ci permetta di attivarlo. Una qualche forma di condizionalità è
legalmente necessaria, ma non stiamo parlando di una classica
condizionalità macroeconomica».
Si
litiga anche sulla possibilità di reperire risorse sui mercati per
aiutare l’economia a superare la recessione: lei è favorevole agli
Eurobond?
«Siamo
in costante contatto con i governi. Sappiamo che stanno preparando
delle proposte e sul tavolo c’è già quella francese. La
Commissione lo ha detto chiaramente: siamo aperti a ogni opzione,
abbiamo bisogno di una risposta ambiziosa, coordinata ed efficace
contro la crisi. Siamo pronti a facilitare questo lavoro».
Von
der Leyen ha affermato che il bilancio Ue dei prossimi sette anni
dovrà essere un Piano Marshall contro la crisi: ce la farete visto
che sul budget è sempre difficile mettere d’accordo i governi?
«Lavoriamo
al Recovery plan per far ripartire l’economia. Un suo elemento
importante sarà il bilancio.
Il
prossimo quadro finanziario dovrà essere ambizioso e dovrà
contenere una forte componente di investimenti per sostenere la
ripresa. Se lavoreremo seguendo il business as usual, passerà almeno
un anno prima che questi fondi siano immessi nell’economia. Non
possiamo accettarlo, abbiamo bisogno di soluzioni per mettere subito
in circuito il denaro».
Quindi
il dialogo non manca ma:
L’Europa
fatica a prendere una decisione politica sulla risposta da dare alla
paralisi economica provocata da Covid 19, per il momento si muovono i
singoli stati, con piani di salvataggio basati principalmente su un
aumento del debito. Ma se il bilancio non è solido, sale il rischio
di un declassamento del rating da parte delle agenzie, il che rende
molto più complicato il collocamento dei nuovi bond, se ne è avuto
un anticipo ieri con l'asta del nuovo bono spagnolo a trent'anni, la
domanda è stata molto fiacca, su livelli che non si vedevano da
circa dieci anni.
Intanto
nel mondo, 3,9 miliardi di persone, circa la metà del genere umano,
è costretta in casa. È stato superato il milione di contagi nei
numeri ufficiali, molto di più nella realtà, l'immunità di gregge
è ancora lontana.
giovedì 2 aprile 2020
L'AZIONE SOLIDALE PER L'EUROPA IN VISTA DELL'EUROGRUPPO DEL PROSSIMO 7 APRILE - PARTE PRIMA
Ammontano
a 100 miliardi di euro i nuovi aiuti che l’Ue discuterà
informalmente da oggi.
Non
denaro a pioggia, ma, come anticipato dalla presidente della
Commissione Ursula von der Leyen, nuove obbligazioni sul mercato
internazionale dei capitali e garantite da tutti gli stati membri.
Una mutualizzazione non del debito ma delle garanzie. Il ricavato
andrà a una sorta di cassa integrazione europea come prestiti ai
paesi più colpiti da disoccupazione causata dal coronavirus, e che
presentino piani attivi di rientro al lavoro. Se il compromesso
riceverà un primo via libera per affinarsi fino all’Eurogruppo del
7 aprile, ci si porta a casa il risultato, al di là di tutte le
polemiche faziose di questi giorni. Interverrebbe la Bei, la Banca
europea per gli investimenti.
BEI,
UNA POSSIBILE VIA DI FUGA
La Banca europea per gli investimenti (BEI) è proprietà comune dei paesi dell’UE. Il suo obiettivo è:
- accrescere le potenzialità dell'Europa in termini di occupazione e crescita
E' salita alla ribalta la Banca Europea degli Investimenti (BEI) nel ruolo di MES “buono”. In effetti, proprio il Direttore del MES Klaus Regling aveva dichiarato martedì scorso, al termine dell’Eurogruppo, che i coronabond ci sono già e sono le obbligazioni emesse dal MES (garantite dai 19 Paesi dell’Eurozona) e quelli emesse dalla BEI (garantite dai 27 Paesi della UE). Basta osservare le regole che questi istituti applicano per prestare denaro.Forte della garanzia degli Stati UE, raccoglie denaro sui mercati internazionali emettendo obbligazioni col massimo rating “AAA” (quindi a tassi prossimi allo zero) e li presta a favore di piccole e medie imprese ed enti locali prevalentemente della UE. Al 31/12/2019 aveva erogato prestiti per €560 miliardi, di cui 70 (12%) destinati all’Italia. Già il 16 marzo il Presidente della BEI è intervenuto, raschiando il fondo del bilancio, ed ha messo a disposizione prestiti che avrebbero attivato 40 miliardi di investimenti, poca cosa ma quello c’era in cassa. Ora, per erogare ulteriori prestiti ci vuole altro capitale o garanzie. Ma qui l’Italia deve mettere mano al portafoglio, perché è azionista della BEI al 19% circa, alla pari con Francia e Germania. L’ipotesi alla quale pare si stia lavorando è l’attivazione di un fondo di garanzia per 25 miliardi che potrebbe generare prestiti della BEI per 75 miliardi (la leva di 3,5 volte) che, a loro volta, concorrerebbero a finanziare investimenti per ulteriori 200 miliardi.
sabato 9 novembre 2019
SCENDE IL GELO SUGLI ALTIFORNI
Perché
le azioni Arcelor Mittal hanno fatto un balzo all’insù quando il
gruppo siderurgico ha annunciato di voler mollare l’Ilva nelle
braccia dei commissari nominati dal governo italiano?
La
Borsa è spietata ma spesso dice la verità.
Sta
arrivando anche in Italia la tempesta perfetta dell’acciaio?
Proviamo
allora ad entrare nel merito, certo le
nubi sono già alte nel cielo:
La
grande frenata dell’industria automobilistica, consumatrice di
laminati e acciai speciali, l’edilizia che non è ancora tornata ai
livelli pre-crisi, i dazi di Donald Trump, i prezzi al rialzo della
materia prima e degli idrocarburi; aggiungiamo anche la Brexit che ha
costretto per esempio la British Steele a portare i libri in
tribunale. Poi c’è l’appuntamento con il futuro, cioè la
riconversione dell’intero settore per far fronte alla nuova
domanda, quella che riguarda l’ambiente (non a caso sono aumentati
i diritti per le emissioni di anidride carbonica). L’acciaio che,
come il petrolio, ha segnato la seconda rivoluzione industriale, si
trova anch’esso di fronte a un nuovo storico cambiamento. La
ripresa post-crisi aveva prodotto un vero e proprio eccesso di
offerta, ma in una prima fase anziché tagliare la produzione si era
preferito vendere sotto costo per tener testa alla Cina maestra del
dumping. Da quasi un decennio ormai i prezzi dei nastri laminati a
freddo e delle barre rinforzate, i due prodotti più richiesti, sono
sempre inferiori a quelli medi. Ben prima della elezione di
Trump sono stati introdotti dazi su 16 categorie di prodotti
siderurgici provenienti dalla Cina, e l’anno scorso il Dipartimento
del Commercio ha imposto dazi preliminari di oltre il 200 per cento
sull’importazione dei laminati piani utilizzati soprattutto
nell’auto e nella costruzione dei containers, colpendo otto paesi:
Cina, Brasile, Corea, India, Russia, Giappone, ma anche Gran Bretagna
e Olanda.
In
questo quadro davvero macro si inserisce la pantomima tragicomica
dell’Ilva, recitata non solo dai politici, ma anche dal popolo di
Taranto, che ha votato in massa per il Movimento 5 stelle (48 per
cento alle politiche), il quale voleva chiudere il centro siderurgico
e adesso che si rischia davvero la chiusura chiede protezione allo
stato.
Molti
i casi già esplosi in vari paesi europei, a cominciare dalla
Germania, dove è fallita la fusione tra le acciaierie europee del
colosso tedesco Thyssen Krupp con gli stabilimenti della indiana Tata
Steel. I licenziamenti annunciati sono circa seimila. Arcelor Mittal
ha già ridimensionato nettamente i suoi piani produttivi a partire
dall’inizio dell’anno, anche se adesso i sindacati e le forze
politiche italiane sembrano cadere dal pero. Era slittato l’aumento
produttivo a sei milioni di tonnellate (quando sono entrati erano 4,5
milioni) e la scelta di salvaguardare Taranto andava a scapito di
altri stabilimenti: Dunquerque nel nord della Francia,
Eisenhuttenstadt e
Brema in Germania, Cracovia in Polonia e quello delle Asturie in
Spagna (un taglio di oltre 3 milioni di tonnellate solo in questi
ultimi due è stato deciso nel maggio scorso). C’è poi il
clamoroso caso della British Steel che si è arresa, vittima della
Brexit che ha ridotto gli ordinativi e imposto extra costi per
partecipare al mercato dei diritti sulle emissioni di anidride
carbonica.
In
Italia la Danieli (oltre 2 miliardi di fatturato e 9.300 dipendenti)
sente il morso della bassa congiuntura che si è manifestato in un
calo degli utili. Arvedi ( 3,1 miliardi di fatturato e 3.600
dipendenti) ha ridotto la produzione del 70 per cento in questi
ultimi due mesi dell’anno. Marcegaglia, primo gruppo privato
italiano (5 miliardi di fatturato e 6.500 dipendenti) cresciuto molto
nei due anni precedenti, spera di superare l’anno senza gravi
conseguenze. Se l’associazione degli industriali ha ragione, ci
troviamo di fronte a un punto di svolta che ricorda quello che negli
anni ’80 ha segnato le sorti della siderurgia di stato in Italia e
non solo.
Gettiamo
uno sguardo di lungo periodo, per esempio all’industria tedesca, la
più avanzata e la più grande d’Europa, e mettiamo a confronto la
situazione del 1980 con quella odierna. Allora le acciaierie della
Germania sfornavano 43,8 milioni di tonnellate di acciaio grezzo con
288 mila addetti; lo scorso anno la produzione è stata di 42,7
milioni di tonnellate con 88 mila addetti. Gli occupati del comparto
si sono ridotti a meno di un terzo.
L’Italia
è tuttora la seconda potenza europea dopo la Germania. Con 24-25
milioni di tonnellate di produzione annua sovrasta nettamente la
Francia e la Spagna che producono 13-14 milioni di tonnellate
ciascuna, mentre il Regno Unito è sceso a otto (quasi dimezzando la
sua produzione negli ultimi anni). La siderurgia non è una landa
desolata di impianti da archeologia industriale. Al contrario. Da un
lato c’è quello che possiamo definire lo smaltimento dello
spezzatino Finsider: Taranto, Terni, Piombino che da vent’anni non
trovano pace né stabilità proprietaria e produttiva. Dall’altro
ci sono i privati che cambiano, innovano, crescono. Marcegaglia,
Arvedi, Pittini, Beltrame, Feralpi.
Dunque
non si tratta solo di dimezzare gli occupati attuali, ma
probabilmente di chiudere i battenti?
La
coalizione della decrescita felice che è prevalsa a Taranto non ha
dubbi. Ogni forno è una bomba a cielo aperto, peggio quelli a caldo,
ma anche quelli a freddo non scherzano. I siderurgici s’inalberano:
ma come, oggi un impianto consuma molta meno energia e sputa una
quantità di fumi, polveri e detriti nettamente inferiore rispetto a
vent’anni fa.
Allora
come stanno le cose?
L’Ocse
ha dedicato molti studi a questa trasformazione di lunga durata ( per
esempio “Greening Steel: Innovation for Climate Change Mitigation
in the Steel Sector” che risale indietro di un secolo addirittura).
Pochi ricordano che l’acciaio è riciclabile al cento per cento e
la British Steel ha messo nero su bianco come, utilizzando l’acciaio
inossidabile, si possono ridurre i gas di scarico o ripulire le
acque. C’è poi il grande sforzo che viene fatto per risanare non
solo le aree dismesse, ma anche quelle che circondano gli
stabilimenti in funzione. Viene spesso citato l’esempio della Rhur,
dimenticando di ricordare che, come abbiamo visto, la Germania non ha
abbandonato l’acciaio, ma, seguendo la sua filosofia industriale,
si è spostata via via nei segmenti alti della produzione. E oggi
resta di gran lunga la numero uno in Europa: le cifre le abbiano già
scritte, ma è meglio ricordare un dato di fatto troppo spesso
rimosso. Dell’acciaio ormai non si può fare a meno, però i
seguaci della decrescita vorrebbero comprarlo nei paesi in via di
sviluppo invece di cambiare i sistemi produttivi nel mondo
sviluppato. Tra industriali ed ecologisti il conflitto non è
destinato a risolversi in tempi che coincidono con la vita umana, per
quanto lunga possa essere. Ma una cosa è certa: chiudendo gli
impianti nessuno può dire che migliorerà l’ambiente, tutti però
sanno che peggiorerà il benessere collettivo.
E
Taranto sta lì a ricordarlo, come un momento saliente del teatrino
dell’assurdo.
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