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sabato 9 novembre 2019

SCENDE IL GELO SUGLI ALTIFORNI

Perché le azioni Arcelor Mittal hanno fatto un balzo all’insù quando il gruppo siderurgico ha annunciato di voler mollare l’Ilva nelle braccia dei commissari nominati dal governo italiano?
La Borsa è spietata ma spesso dice la verità.
 Sta arrivando anche in Italia la tempesta perfetta dell’acciaio?
Proviamo allora ad entrare nel merito, certo le nubi sono già alte nel cielo:
La grande frenata dell’industria automobilistica, consumatrice di laminati e acciai speciali, l’edilizia che non è ancora tornata ai livelli pre-crisi, i dazi di Donald Trump, i prezzi al rialzo della materia prima e degli idrocarburi; aggiungiamo anche la Brexit che ha costretto per esempio la British Steele a portare i libri in tribunale. Poi c’è l’appuntamento con il futuro, cioè la riconversione dell’intero settore per far fronte alla nuova domanda, quella che riguarda l’ambiente (non a caso sono aumentati i diritti per le emissioni di anidride carbonica). L’acciaio che, come il petrolio, ha segnato la seconda rivoluzione industriale, si trova anch’esso di fronte a un nuovo storico cambiamento. La ripresa post-crisi aveva prodotto un vero e proprio eccesso di offerta, ma in una prima fase anziché tagliare la produzione si era preferito vendere sotto costo per tener testa alla Cina maestra del dumping. Da quasi un decennio ormai i prezzi dei nastri laminati a freddo e delle barre rinforzate, i due prodotti più richiesti, sono sempre inferiori a quelli medi.  Ben prima della elezione di Trump sono stati introdotti dazi su 16 categorie di prodotti siderurgici provenienti dalla Cina, e l’anno scorso il Dipartimento del Commercio ha imposto dazi preliminari di oltre il 200 per cento sull’importazione dei laminati piani utilizzati soprattutto nell’auto e nella costruzione dei containers, colpendo otto paesi: Cina, Brasile, Corea, India, Russia, Giappone, ma anche Gran Bretagna e Olanda.
In questo quadro davvero macro si inserisce la pantomima tragicomica dell’Ilva, recitata non solo dai politici, ma anche dal popolo di Taranto, che ha votato in massa per il Movimento 5 stelle (48 per cento alle politiche), il quale voleva chiudere il centro siderurgico e adesso che si rischia davvero la chiusura chiede protezione allo stato. 
Molti i casi già esplosi in vari paesi europei, a cominciare dalla Germania, dove è fallita la fusione tra le acciaierie europee del colosso tedesco Thyssen Krupp con gli stabilimenti della indiana Tata Steel. I licenziamenti annunciati sono circa seimila. Arcelor Mittal ha già ridimensionato nettamente i suoi piani produttivi a partire dall’inizio dell’anno, anche se adesso i sindacati e le forze politiche italiane sembrano cadere dal pero. Era slittato l’aumento produttivo a sei milioni di tonnellate (quando sono entrati erano 4,5 milioni) e la scelta di salvaguardare Taranto andava a scapito di altri stabilimenti: Dunquerque nel nord della Francia, Eisenhuttenstadt e Brema in Germania, Cracovia in Polonia e quello delle Asturie in Spagna (un taglio di oltre 3 milioni di tonnellate solo in questi ultimi due è stato deciso nel maggio scorso). C’è poi il clamoroso caso della British Steel che si è arresa, vittima della Brexit che ha ridotto gli ordinativi e imposto extra costi per partecipare al mercato dei diritti sulle emissioni di anidride carbonica.
In Italia la Danieli (oltre 2 miliardi di fatturato e 9.300 dipendenti) sente il morso della bassa congiuntura che si è manifestato in un calo degli utili. Arvedi ( 3,1 miliardi di fatturato e 3.600 dipendenti) ha ridotto la produzione del 70 per cento in questi ultimi due mesi dell’anno. Marcegaglia, primo gruppo privato italiano (5 miliardi di fatturato e 6.500 dipendenti) cresciuto molto nei due anni precedenti, spera di superare l’anno senza gravi conseguenze. Se l’associazione degli industriali ha ragione, ci troviamo di fronte a un punto di svolta che ricorda quello che negli anni ’80 ha segnato le sorti della siderurgia di stato in Italia e non solo.
Gettiamo uno sguardo di lungo periodo, per esempio all’industria tedesca, la più avanzata e la più grande d’Europa, e mettiamo a confronto la situazione del 1980 con quella odierna. Allora le acciaierie della Germania sfornavano 43,8 milioni di tonnellate di acciaio grezzo con 288 mila addetti; lo scorso anno la produzione è stata di 42,7 milioni di tonnellate con 88 mila addetti. Gli occupati del comparto si sono ridotti a meno di un terzo. 
L’Italia è tuttora la seconda potenza europea dopo la Germania. Con 24-25 milioni di tonnellate di produzione annua sovrasta nettamente la Francia e la Spagna che producono 13-14 milioni di tonnellate ciascuna, mentre il Regno Unito è sceso a otto (quasi dimezzando la sua produzione negli ultimi anni). La siderurgia non è una landa desolata di impianti da archeologia industriale. Al contrario. Da un lato c’è quello che possiamo definire lo smaltimento dello spezzatino Finsider: Taranto, Terni, Piombino che da vent’anni non trovano pace né stabilità proprietaria e produttiva. Dall’altro ci sono i privati che cambiano, innovano, crescono. Marcegaglia, Arvedi, Pittini, Beltrame, Feralpi.

Dunque non si tratta solo di dimezzare gli occupati attuali, ma probabilmente di chiudere i battenti?

La coalizione della decrescita felice che è prevalsa a Taranto non ha dubbi. Ogni forno è una bomba a cielo aperto, peggio quelli a caldo, ma anche quelli a freddo non scherzano. I siderurgici s’inalberano: ma come, oggi un impianto consuma molta meno energia e sputa una quantità di fumi, polveri e detriti nettamente inferiore rispetto a vent’anni fa.

Allora come stanno le cose?

L’Ocse ha dedicato molti studi a questa trasformazione di lunga durata ( per esempio “Greening Steel: Innovation for Climate Change Mitigation in the Steel Sector” che risale indietro di un secolo addirittura). Pochi ricordano che l’acciaio è riciclabile al cento per cento e la British Steel ha messo nero su bianco come, utilizzando l’acciaio inossidabile, si possono ridurre i gas di scarico o ripulire le acque. C’è poi il grande sforzo che viene fatto per risanare non solo le aree dismesse, ma anche quelle che circondano gli stabilimenti in funzione. Viene spesso citato l’esempio della Rhur, dimenticando di ricordare che, come abbiamo visto, la Germania non ha abbandonato l’acciaio, ma, seguendo la sua filosofia industriale, si è spostata via via nei segmenti alti della produzione. E oggi resta di gran lunga la numero uno in Europa: le cifre le abbiano già scritte, ma è meglio ricordare un dato di fatto troppo spesso rimosso. Dell’acciaio ormai non si può fare a meno, però i seguaci della decrescita vorrebbero comprarlo nei paesi in via di sviluppo invece di cambiare i sistemi produttivi nel mondo sviluppato. Tra industriali ed ecologisti il conflitto non è destinato a risolversi in tempi che coincidono con la vita umana, per quanto lunga possa essere. Ma una cosa è certa: chiudendo gli impianti nessuno può dire che migliorerà l’ambiente, tutti però sanno che peggiorerà il benessere collettivo.


E Taranto sta lì a ricordarlo, come un momento saliente del teatrino dell’assurdo.