Perché
le azioni Arcelor Mittal hanno fatto un balzo all’insù quando il
gruppo siderurgico ha annunciato di voler mollare l’Ilva nelle
braccia dei commissari nominati dal governo italiano?
La
Borsa è spietata ma spesso dice la verità.
Sta
arrivando anche in Italia la tempesta perfetta dell’acciaio?
Proviamo
allora ad entrare nel merito, certo le
nubi sono già alte nel cielo:
La
grande frenata dell’industria automobilistica, consumatrice di
laminati e acciai speciali, l’edilizia che non è ancora tornata ai
livelli pre-crisi, i dazi di Donald Trump, i prezzi al rialzo della
materia prima e degli idrocarburi; aggiungiamo anche la Brexit che ha
costretto per esempio la British Steele a portare i libri in
tribunale. Poi c’è l’appuntamento con il futuro, cioè la
riconversione dell’intero settore per far fronte alla nuova
domanda, quella che riguarda l’ambiente (non a caso sono aumentati
i diritti per le emissioni di anidride carbonica). L’acciaio che,
come il petrolio, ha segnato la seconda rivoluzione industriale, si
trova anch’esso di fronte a un nuovo storico cambiamento. La
ripresa post-crisi aveva prodotto un vero e proprio eccesso di
offerta, ma in una prima fase anziché tagliare la produzione si era
preferito vendere sotto costo per tener testa alla Cina maestra del
dumping. Da quasi un decennio ormai i prezzi dei nastri laminati a
freddo e delle barre rinforzate, i due prodotti più richiesti, sono
sempre inferiori a quelli medi. Ben prima della elezione di
Trump sono stati introdotti dazi su 16 categorie di prodotti
siderurgici provenienti dalla Cina, e l’anno scorso il Dipartimento
del Commercio ha imposto dazi preliminari di oltre il 200 per cento
sull’importazione dei laminati piani utilizzati soprattutto
nell’auto e nella costruzione dei containers, colpendo otto paesi:
Cina, Brasile, Corea, India, Russia, Giappone, ma anche Gran Bretagna
e Olanda.
In
questo quadro davvero macro si inserisce la pantomima tragicomica
dell’Ilva, recitata non solo dai politici, ma anche dal popolo di
Taranto, che ha votato in massa per il Movimento 5 stelle (48 per
cento alle politiche), il quale voleva chiudere il centro siderurgico
e adesso che si rischia davvero la chiusura chiede protezione allo
stato.
Molti
i casi già esplosi in vari paesi europei, a cominciare dalla
Germania, dove è fallita la fusione tra le acciaierie europee del
colosso tedesco Thyssen Krupp con gli stabilimenti della indiana Tata
Steel. I licenziamenti annunciati sono circa seimila. Arcelor Mittal
ha già ridimensionato nettamente i suoi piani produttivi a partire
dall’inizio dell’anno, anche se adesso i sindacati e le forze
politiche italiane sembrano cadere dal pero. Era slittato l’aumento
produttivo a sei milioni di tonnellate (quando sono entrati erano 4,5
milioni) e la scelta di salvaguardare Taranto andava a scapito di
altri stabilimenti: Dunquerque nel nord della Francia,
Eisenhuttenstadt e
Brema in Germania, Cracovia in Polonia e quello delle Asturie in
Spagna (un taglio di oltre 3 milioni di tonnellate solo in questi
ultimi due è stato deciso nel maggio scorso). C’è poi il
clamoroso caso della British Steel che si è arresa, vittima della
Brexit che ha ridotto gli ordinativi e imposto extra costi per
partecipare al mercato dei diritti sulle emissioni di anidride
carbonica.
In
Italia la Danieli (oltre 2 miliardi di fatturato e 9.300 dipendenti)
sente il morso della bassa congiuntura che si è manifestato in un
calo degli utili. Arvedi ( 3,1 miliardi di fatturato e 3.600
dipendenti) ha ridotto la produzione del 70 per cento in questi
ultimi due mesi dell’anno. Marcegaglia, primo gruppo privato
italiano (5 miliardi di fatturato e 6.500 dipendenti) cresciuto molto
nei due anni precedenti, spera di superare l’anno senza gravi
conseguenze. Se l’associazione degli industriali ha ragione, ci
troviamo di fronte a un punto di svolta che ricorda quello che negli
anni ’80 ha segnato le sorti della siderurgia di stato in Italia e
non solo.
Gettiamo
uno sguardo di lungo periodo, per esempio all’industria tedesca, la
più avanzata e la più grande d’Europa, e mettiamo a confronto la
situazione del 1980 con quella odierna. Allora le acciaierie della
Germania sfornavano 43,8 milioni di tonnellate di acciaio grezzo con
288 mila addetti; lo scorso anno la produzione è stata di 42,7
milioni di tonnellate con 88 mila addetti. Gli occupati del comparto
si sono ridotti a meno di un terzo.
L’Italia
è tuttora la seconda potenza europea dopo la Germania. Con 24-25
milioni di tonnellate di produzione annua sovrasta nettamente la
Francia e la Spagna che producono 13-14 milioni di tonnellate
ciascuna, mentre il Regno Unito è sceso a otto (quasi dimezzando la
sua produzione negli ultimi anni). La siderurgia non è una landa
desolata di impianti da archeologia industriale. Al contrario. Da un
lato c’è quello che possiamo definire lo smaltimento dello
spezzatino Finsider: Taranto, Terni, Piombino che da vent’anni non
trovano pace né stabilità proprietaria e produttiva. Dall’altro
ci sono i privati che cambiano, innovano, crescono. Marcegaglia,
Arvedi, Pittini, Beltrame, Feralpi.
Dunque
non si tratta solo di dimezzare gli occupati attuali, ma
probabilmente di chiudere i battenti?
La
coalizione della decrescita felice che è prevalsa a Taranto non ha
dubbi. Ogni forno è una bomba a cielo aperto, peggio quelli a caldo,
ma anche quelli a freddo non scherzano. I siderurgici s’inalberano:
ma come, oggi un impianto consuma molta meno energia e sputa una
quantità di fumi, polveri e detriti nettamente inferiore rispetto a
vent’anni fa.
Allora
come stanno le cose?
L’Ocse
ha dedicato molti studi a questa trasformazione di lunga durata ( per
esempio “Greening Steel: Innovation for Climate Change Mitigation
in the Steel Sector” che risale indietro di un secolo addirittura).
Pochi ricordano che l’acciaio è riciclabile al cento per cento e
la British Steel ha messo nero su bianco come, utilizzando l’acciaio
inossidabile, si possono ridurre i gas di scarico o ripulire le
acque. C’è poi il grande sforzo che viene fatto per risanare non
solo le aree dismesse, ma anche quelle che circondano gli
stabilimenti in funzione. Viene spesso citato l’esempio della Rhur,
dimenticando di ricordare che, come abbiamo visto, la Germania non ha
abbandonato l’acciaio, ma, seguendo la sua filosofia industriale,
si è spostata via via nei segmenti alti della produzione. E oggi
resta di gran lunga la numero uno in Europa: le cifre le abbiano già
scritte, ma è meglio ricordare un dato di fatto troppo spesso
rimosso. Dell’acciaio ormai non si può fare a meno, però i
seguaci della decrescita vorrebbero comprarlo nei paesi in via di
sviluppo invece di cambiare i sistemi produttivi nel mondo
sviluppato. Tra industriali ed ecologisti il conflitto non è
destinato a risolversi in tempi che coincidono con la vita umana, per
quanto lunga possa essere. Ma una cosa è certa: chiudendo gli
impianti nessuno può dire che migliorerà l’ambiente, tutti però
sanno che peggiorerà il benessere collettivo.
E
Taranto sta lì a ricordarlo, come un momento saliente del teatrino
dell’assurdo.